È una bocciatura senza appello della riforma del processo penale firmato dalla Guardasigilli Marta Cartabia, quella dei due pm antimafia ascoltati ieri mattina in Commissione Giustizia, alla Camera. Certo, i torni, le argomentazioni e soprattutto le controproposte avanzate dal procuratore capo di Catanzaro Nicola Gratteri sono  connotate da un filino di populismo penale, e seducono subito l’anima più giustizialista del M5S. Tutt’altro stile il procuratore antimafia e antiterrorismo, Federico Cafiero De Raho. Ma le critiche sollevate da entrambi al ddl sulla delega al governo per «l’efficienza del processo penale e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari pendenti presso le corti d’Appello» combaciano su molti punti. E non sempre a torto.

Il primo, quello che fa scattare subito l’allarme nelle fila del M5S (e degli ex, come Alessandro Di Battista che attacca i 4 ministri stellati per aver votato questa «porcata immonda»), riguarda la nuova prescrizione che sostituisce quella targata Bonafede e che prevede l’improcedibilità in sede d’Appello trascorsi due anni dal primo grado di giudizio e un solo anno di tempo per la sentenza della Cassazione.

Per entrambi i pm la norma «mina la sicurezza del Paese». De Raho spiega che essa «non corrisponde alle esigenze di giustizia» anche perché «riguarda tutti i processi», compresi quelli per «reati gravissimi» come mafia, terrorismo e corruzione, con conseguenze sulla «sicurezza della nostra democrazia». Il procuratore nazionale antimafia ricorda che se la Costituzione e i trattati internazionali prescrivono la «ragionevole durata del processo», i termini di durata massima del giudizio «si trovano già nella legge Pinto». L’improcedibilità però, secondo De Raho, è illegittima. Piuttosto, dice, si provveda alla digitalizzazione e si permetta ai giudici la possibilità «di operare come monocratico», perché «la giustizia non può non essere esercitata attraverso un numero di giudici non sufficiente», e senza risorse.

Per Gratteri dopo la riforma c’è solo la catastrofe: «diminuzione del livello di sicurezza», «annullamento totale della qualità del lavoro», «aumento smisurato di appelli e ricorsi in Cassazione» per fare «ingolfare di più la macchina della giustizia e giungere alla improcedibilità», «azzeramento di anni di lavoro di pm, polizia e giudici di primo grado». In uno slogan: «Ancor di più converrà delinquere». «Il 50% dei processi e i maxi processi che celebriamo saranno dichiarati improcedibili in Appello», è la sua previsione. «Meglio allora – sintetizza il pm di Catanzaro – tornare alle norme prima della riforma Bonafede (quando la sacrosanta prescrizione corrispondeva al massimo della pena edittale stabilita dalle leggi, ndr): provocano meno danni».

Le alternative per ridurre i tempi? «Escludere alcune ipotesi di Appello», «introdurre specifiche condizioni di Appello come proposto anche dalla commissione Lattanzi», «o anche definitivamente abolire la riforma in peius al fine di scoraggiare appelli pretestuosi». C’è un allarme anche riguardo i «rapinatori e quelli che vendono droga nelle piazze». D’altronde, per Gratteri, parlare di «indulto e amnistia» per ridurre il sovraffollamento nelle carceri – atti che «non cambiano nulla in termini di sicurezza», ammette – crea un problema di «credibilità», «di immagine». Perché è «umiliante» discutere delle pene alternative per evitare «le bacchettate del Consiglio d’Europa». Piuttosto, conclude Gratteri con passione, «si costruiscano nuove carceri con i prefabbricati e in pochissimo tempo».

Molto più seria l’argomentazione di Cafiero De Raho che giudica «non conforme alla Costituzione riservare al Parlamento la definizione dei criteri generali di indirizzo per l’esercizio dell’azione penale». Davvero un punto dolente, questo della riforma Cartabia: l’azione penale «è e resta obbligatoria». «L’individuazione di criteri di priorità è solo facoltativa nell’ambito dei distretti e avviene al fine di dare trasparenza all’attività requirente del pm, ma non significa quelle categorie di reati non vengono trattati», spega De Raho. E invece lasciare che sia la politica a stabilire la priorità dell’attività giudiziaria significa «minare il principio dell’obbligatorietà» e «l’autonomia della magistratura che la Costituzione garantisce».