Uomini d’affari, artisti, avvocati, modelle, agenti, attrici, attori, musicisti, politici, nobili e nuovi ricchi, ragazzi ebrei con il cuore infranto e qualche gangster – Cafè Society è’ film pensato come un romanzo, scritto (in digitale) con la luce di Vittorio Storaro e un orecchio alle intricate saghe familiari di Isaac Bashevis Singer.

Dal Bronx degli anni trenta, Bobby Dorfman (Jesse Eisenberg) – stretto tra due genitori che litigano, un fratello maggiore attratto dal crimine e una sorella intellettuale – decide di tentare la fortuna dall’altra parte degli States, dove suo zio Phil (Steve Carell) è un famoso agente hollywoodiano. Dai bruni e grigi invernali di New York, a una palette di colori vivacissimi e ipersaturi : i turchesi delle piscine (la scena di una festa e stata girata in quella che fu la casa di Dolores del Rio), i verdi dei prati perfetti, gli intonaci rosati delle architetture art déco, i marroni profondi dei legni preziosi che foderano gli uffici degli studios…

Storaro, affiancato allo scenografo abituale di Allen, Santo Loquasto, spinge l’intensità delle tinte verso la bellezza irreale di un sogno (come aveva fatto parecchi anni fa, in modo totalmente sperimentale, in One From the Heart, di Francis Ford Coppola). I nomi di Paul Muni, Howard Hawks, Ginger Rogers, Joel Mccrea….aleggiano nell’aria. Ma non si ha l’impressione che tutta questa bellezza sia il sogno di Woody Allen, che «dietro alle quinte» sembrava molto più ispirato in Pallottole su Broadway o Broadway Danny Rose, e che, sul cinema, ci ha dato il sublime La rosa purpurea del Cairo. La sua Hollywood emana infatti meno romanticismo di quella ricreata dai fratelli Coen in Ave Cesare, e meno fascinazione del devastante sottobosco di Mulholland Drive.

Non a caso il film rientra presto a New York, dove Bobby torna per curarsi il cuore spezzatogli dalla segretaria dello zio, Vonnie (Kristen Stewart, in calzini corti e sandaletti), che gli fa da guida tra Beverly Hills e romantici localini messicani, ma poi lo molla quando il ricco e famoso uomo sposato con cui aveva una storia decide finalmente di lasciare la moglie. Nell’effervescente Manhattan del post proibizionismo , Bobby si mette in società con il fratello poco di buono e acquista un fumoso locale della Downtown, il Club Hangover, che, con una verniciata di rispettabilità e un nuovo nome, Les Tropiques, diventa un paradiso delle notti newyorkesi alla El Morocco. E dove una sera, il passato irrompe improvvisamente nella nuova vita di Bobby. Tecnicamente parlando – e lo conferma l’ultima scena, la più emozionante e sentita –  è una love story.

Ma, dietro alle immagini preziose e al glamour dei suoi sfondi, si intravede un film malinconico sulle scelte della vita, su come le cose avrebbero potuto andare diversamente. Forse è il film che Allen voleva fare, e che – a parte alcuni momenti molto belli – si è perso per la strada.