Quando un alto prelato chiese al celebre biologo inglese John B. S. Haldane quale fosse la sua idea di Dio, pare che questi avesse risposto: «ha una passione smodata per gli scarabei». L’aneddoto è riportato da Primo Levi in uno dei suoi elzeviri, intitolato, appunto, I coleotteri, e ha molto a che fare con il contenuto dell’ultimo saggio di Mauro Bonazzi, Creature di un sol giorno I Greci e il mistero dell’esistenza (Einaudi «ET Saggi», pp. 160, euro 12,50). Siamo sogni di ombre, sempre appesi al nulla da cui proveniamo e a cui, da ultimo, approderemo. Eppure, un desiderio mai pago ci fa dimenticare la nostra caducità; ci spinge a vagheggiare l’approdo a una vita immortale di cui in verità nulla sappiamo se non che lì si placherà il flusso cattivo del tempo e ci sentiremo più vicini agli dèi e più lontani dalle farfalle, dalle mosche, persino dai «panzer in miniatura», come Primo Levi definisce gli scarabei.
Leggendo Creature di un sol giorno, sembra quasi di dover dar ragione a quella paretimologia, pazza e bellissima, che legava la parola desiderium a una nostalgia mai quieta per il mondo siderale da cui proveniamo. Come diceva, del resto, Platone nel Timeo (42b), tutti noi abbiamo una stella compagna che ci cammina a fianco e a cui desideriamo sempre ricongiungerci, in un modo o nell’altro.
Il volume di Bonazzi si presenta come una riflessione sulla caducità del vivere umano e sulla nostra indocilità ad accettarlo: un viaggio attraverso i dialoghi platonici, l’Etica nicomachea aristotelica, gli affreschi di Omero e la poesia di Pindaro, per allargarsi poi nelle plaghe dell’Ulisse dantesco dove il mondo si squaderna e «C’è solo il rumore del vento e del mare, nient’altro». La tela – ordito e trama – si intreccia tuttavia al lessico del desiderio che detta il ritmo di ogni esistenza, individuale e collettiva.
Desiderio biologico, desiderio politico, desiderio filosofico. Nel Simposio platonico, il poeta comico Aristofane racconta ai suoi compagni di banchetto l’ormai celebre storia degli esseri umani delle origini: creature circensi e anarchiche che procedevano rotolando, arroganti, in cerchio per il mondo e che erano state perciò punite da Zeus e tagliate in due. Da lì deriverebbe la nostra ricerca estenuante e talvolta vana per la metà che ci è stata sottratta con quella mutilazione, in una stagione di cui abbiamo perso il ricordo. Solo nel ricongiungimento è possibile placare il desiderio di vivere in un altro e di sopravvivere attraverso la riproduzione biologica.
Il mito delle origini di Aristofane non è però solo la storia di un amore o una lezione sulla legge del desiderio, ma una riflessione sul tempo: tempo eterno e circolare degli dèi, tempo lineare e caduco degli esseri umani che, non potendo più riavvolgersi in cerchio come i pianeti, perdono con la loro circolarità anche l’ultimo treno per l’immortalità. La percezione del tempo è un altro motivo conduttore del saggio di Bonazzi: quanto dura, come si conta il piccolo mattino dell’esistenza di una farfalla, di una mosca, di una foglia? Come si misura la vita di un uomo che, fin da Pindaro e, ancora prima, da Omero e da Mimnermo, è foglia al vento? Qui l’immagine più bella, persino commovente, è quella, evocata da Bonazzi, di Xanto, il cavallo immortale di Achille, che, sul punto di tornare nella mischia, china il muso al suolo, con la criniera a carezzare la terra, e compiange la morte imminente del più grande degli eroi. La tenerezza quieta dell’animale nei confronti del compagno mortale è uno dei momenti più alti di tutta l’Iliade: noi possiamo anche levarci alti in cielo seguendo il soffio di Zefiro, dice Xanto, reso parlante da Era, ma la Moira, il destino, e il dio sono destinati a trovarti, in ogni caso (Iliade XIX, 404-17).

Achille pensava fosse sufficiente la gloria, il kléos; che bastassero gli altri, i posteri, per garantirgli la sua porzione di immortalità: un desiderio individuale, ma anche, come ben sottolinea Bonazzi, politico, di identificazione nella comunità. L’Odissea, tuttavia, nel canto XI, lì dove Ulisse si affaccia al mondo «senza mente» dei trapassati, ci racconta il rimpianto di Achille per la vita, anche da poco, degli uomini e la sconfitta del desiderio di gloria: quando si spengono le luci e, come scrive Pindaro, il dio distoglie lo sguardo, siamo tutti il funereo coro di cui parla Leopardi a proposito dell’Oltremondo delle rane. Nell’universo dei trapassati, il primo a entrare in cortocircuito è proprio il tempo, come mostrano bene le pene dei grandi defunti che consistono tutte né più né meno nella reiterazione di uno stesso, implacabile gesto. Lo racconta un bel libro recente di Doralice Fabiano, dedicato fra l’altro proprio alle pene infernali dell’antichità greca (Senza paradiso, il Mulino, pp. 278, euro 20,00).
Che noi si abbia un rapporto problematico con il buio lo diceva ancora una volta Aristofane, questa volta non nella finzione del dialogo platonico, ma per bocca del coro di uccelli, nella commedia andata in scena nel 414 a.C., all’inizio della primavera. «Le più liete creature del mondo», così secondo Leopardi (Elogio degli uccelli) dobbiamo intendere la stirpe alata. Lieti gli uccelli sarebbero perché affrancati dalla consapevolezza della vanità della vita e, così, salvi dalla noia e dalla percezione del tempo: liberi, insomma, a differenza degli uomini. Viceversa gli uccelli di Aristofane, al pari del cavallo Xanto, conoscono bene i segreti del tempo: la finitezza degli umani e l’immortalità che è assegnata alla stirpe degli esseri alati, la cui eternità, da ultimo, si declina nel senso del volo. Noi invece – lo dicono gli uccelli e Aristofane – siamo nati nel buio, assomigliamo alle foglie, siamo un impasto di fango, silhouette d’ombra, senza la gioia delle ali.
Foglie, lo si diceva, eravamo già nell’Iliade, nel meraviglioso canto VI, quasi un diorama dell’intero poema: qui la furia della battaglia si placa per il tempo di un incontro. Il licio Glauco e il greco Diomede, uno di fronte all’altro, evocano la finitezza della vita umana: le stirpi degli uomini sono come foglie gettate a terra dal vento o nutrite dalla terra del bosco. Destinati in fondo al volo nel vento, senza la sapienza dell’aria degli uccelli.
Il nostro, tuttavia, non è un destino desolante: è proprio Omero a ricordarcelo. Possiamo sopravvivere in chi verrà dopo di noi, come ricorda Bonazzi, e ancora costruire un legame d’amicizia che si tramandi per generazioni. Possiamo anche placare il nostro desiderio di eternità nell’amore: questo è del resto il canto famoso in cui Ettore e Andromaca si incontrano. «Tu mi sei padre, madre, fratello e sposo fiorente» dice Andromaca al suo Ettore (vv. 429-430): la sola dichiarazione d’amore di tutta l’Iliade e, insieme, la creazione di una tessitura d’affetti posta a baluardo contro la morte.
Non basta, e non basterà nemmeno a Ettore, Andromaca e al piccolo Astianatte. Si dovrà tornare al desiderio: l’unica forza in grado di combattere contro la morte, che si «oppone al potere distruttore della morte rinnovando l’evento della vita». Non solo desiderio fisico, ma fame di bellezza e di conoscenza. «Noi siamo desiderio», sottolinea Bonazzi, desiderio di un’immortalità non caduca. In Grecia, nell’antichità, gli esseri umani venivano puniti per aver anche soltanto pensato di avvicinarsi agli dèi. Eppure la profetessa Diotima, piede centrale del compasso nel Simposio platonico, ci dice che anzi abbiamo diritto ad aspirare all’immortalità; dobbiamo pretenderla, proprio in virtù della nostra fragilità.
La strategia per intercettare il vuoto d’aria fra esserci e non esserci e, di conseguenza, la felicità è, forse, materia di filosofi; di certo, gli uccelli sembrano già conoscerla.