Colpire il nemico fuori dal teatro siriano iracheno. Punirlo per aver annunciato (alcuni giorni fa con un incontro stampa) la presa di Mosul. Attaccare un obiettivo che dia risalto mediatico all’azione esemplare. Sembra questo il ragionamento che ha portato ieri un commando dello Stato islamico, nella sua versione «Territorio del Khorasan», ad attaccare l’ambasciata irachena a Kabul, nel cuore commercial-diplomatico della capitale.

AZIONE RAPIDA e con meccanismi noti: un kamikaze vestito da poliziotto si fa esplodere all’ingresso della legazione irachena; la porta si apre e un commando di tre uomini entra per fare strage. Ma le cose vanno male: un poliziotto viene ferito e mentre i guardiani dell’ambasciata impegnano il commando gli altri riescono a fuggire. Poi escono tutti mentre la legazione viene circondata e finisce sotto il fuoco incrociato della truppe speciali afghane. Dura circa quattro ore l’assedio al commando (dalle 11 del mattino alle 15), poi i tre vengono fatti fuori mentre l’agenzia Amaq, la sirena mediatica del califfato di Al Baghdadi, rivendica l’azione. Fortunatamente sfortunata.

Il prezzo lo pagano soprattutto gli uomini del commando anche se due civili hanno perso la vita ed è sempre presto per sapere se non vi siano altre vittime. Le vittime civili della guerra, come ha appena denunciato il rapporto semestrale dell’Onu, sono quelle con i numeri più alti, in un conflitto che si è spostato sempre più nella capitale: su 1662 morti nei primi sei mesi del 2017, il 20% ha perso la vita a Kabul.

L’ATTENTATO SEMBRA INDICARE il desiderio dello Stato islamico di affermare la sua presenza nella guerra afghana nel tentativo di farla apparire come un pezzo della guerra globale volta alla riconquista di vecchi e nuovi territori della Umma sunnita. Ma la guerra afghana di Al Baghdadi segna pochi successi ed è particolarmente sotto tiro anche da parte dei talebani che non amano affatto questi jihadisti d’importazione che hanno reclutato vecchi quadri espulsi dal movimento o qualche clan, guerrigliero più per convenienza che per fede. Colpire l’ambasciata irachena, un obiettivo davvero inusuale nel panorama diplomatico della capitale, indica poi un cambio di strategia che esce dai binari che hanno sempre condotto le azioni verso la «zona verde», una città nella città dove c’è il quartier generale della Nato e l’ambasciata americana, il «nemico lontano» per Al Qaeda, il nemico di sempre per i talebani che imputano a Washington l’escalation della guerra, pur coi suoi alti e bassi, e soprattutto la scelta di mantenere un’occupazione militare che, per quanto avallata dal governo locale, mostra sempre più la corda.

PER USCIRE DALL’IMPASSE gli americani stanno pensando a una nuova strategia che per ora è solo una sommatoria di indiscrezioni dove c’è tutto e il contrario di tutto: Trump avrebbe dovuto rendere noto il suo piano a metà luglio ma i giorni passano e la montagna non riesce a partorire nemmeno un topolino. Più soldati? Più aerei? Più omicidi mirati di leader guerriglieri? E come la mettiamo con la missione Nato Resolute support che, come dice il nome, dovrebbe essere di sola assistenza tecnica, senza sparare un colpo? Una missione che vede impegnati quasi mille militari italiani.

QUANTO ALLE INDISCREZIONI di stampa dei giorni scorsi secondo cui truppe italiane e statunitensi sarebbero sbarcate a Farah (sud ovest), lo Stato maggiore della Difesa precisa che attualmente non vi sono soldati italiani a Farah e che comunque le missioni italiane fuori da Camp Arena (base Nato del quadrante Ovest) «non prevedono l’uso delle armi» ma solo training e formazione.

NON DI MENO, A METÀ AGOSTO circa cento militari italiani si sposteranno a Farah una volta conclusa l’attività esterna di Train Advise e Assist a favore della 3ª brigata del 207˚ Corpo d’Armata dell’esercito afghano dislocata a Qual-eye-naw, 150 Km a Nord di Herat.