«Un traduttore più si cancella più diventa se stesso. Come a me è accaduto, traducendo gesti e figure da altre culture». Questa osservazione del 2009 di Giuseppe Caccavale chiede di essere convocata oggi in presenza del suo ultimo lavoro, Carmi Figurati. Un progetto site specific, a cura di Chiara Bertola, che l’artista ha realizzato nella galleria barese Doppelgaenger (fino alla fine di febbraio). La prima questione che si pone «leggendolo» è cosa ci sia in comune tra il lavoro di un traduttore e quello di un artista visivo. Un traduttore è genericamente inteso come colui che segue rigorosamente un testo nel trasporlo da una lingua a un’altra. L’azione di un artista visivo è invece normalmente associata a un libero atto creativo attraverso i media a lui congeniali. A garanzia della qualità del lavoro traduttivo vi è il confronto tra la traduzione e il documento originale. Cosa invece garantisce la qualità del lavoro di un artista visivo?
A tale domanda oggi pare si possa rispondere solo se si prendono in causa fattori esterni all’arte piuttosto che valori intrinseci all’opera. Ma essa permette forse di ampliare parallelamente il ruolo del traduttore come artista visivo abbozzato nella citazione da Caccavale. O, per meglio dire, di allargarne lo spettro di competenze e sensibilità, perché nel lavoro di traduzione vi è un’arte non secondaria e non semplicemente gregaria. Un traduttore trasferisce non solo del sapere da una lingua a un’altra, ma fa di quel sapere straniero una questione di accoglienza e di arricchimento, per poi, dopo un certo processo elaborativo, essere capace di trasmetterlo in tutta la sua complessità nella cultura di arrivo. In quel processo, nell’animo di un artista-traduttore, accade qualcosa di umile e sorgivo. Bisogna sottostare all’elemento allotrio per poterlo comprendere e rispettare, e allo stesso tempo donare al sapere ricevuto un nuovo afflato, entrare in una rinnovata relazione con esso attraverso un rigenerante impulso vitale.
Nella traduzione poetica, ad esempio, dove il testo originale è l’orma in cui prende piede una nuova poesia, il traduttore è un poeta che si mette sui passi di un altro poeta. In un certo senso è questo il ruolo che Caccavale attribuisce al proprio lavoro di artista fin dagli esordi. Non di citazioni infatti si sono nutrite le sue opere, ma di trasposizioni da un contesto a un altro attraverso rielaborazioni visive e mediali dal felice senso poetico. E in qualche modo il lavoro che egli viene adesso a proporci, questo dei Carmi Figurati, è lo squadernamento di appunti di traduzione, del proprio laboratorio culturale privato dove per la prima volta armonicamente coabitano, sul fondo blu della parete, figure e parole che nel loro disporsi insieme esplicitamente alludono ai lavori verbovisivi dell’abate carolingio Rabano Mauro.
La maggior parte delle figure tradotte sul muro vengono da un grande maestro quattrocentesco, l’alsaziano Martin Schongauer. Volti, mani e occhi suggeriscono una certa tensione umana nel modo in cui la linea sillaba le figure. La trasposizione delle immagini avviene attraverso una linearità ondosa, che si aggroviglia e dipana come fosse un gesto unico del pastello. In qualche modo i disegni hanno il respiro di una poesia appresa a memoria.
A queste figure sono accostate le parole del poeta russo Osip Mandel’štam (quelle delle imparafrasabili Ottave del 1933) che le circondano entrando in risonanza. Le parole di Mandel’štam, miracolosamente sopravvissute all’oblio grazie alla moglie Nadežda Jakovlevna e oggi restituiteci in italiano grazie al pregevole lavoro di Serena Vitale, sono divenute un vero e proprio mantra per Caccavale, che le ha proposte in vari lavori recenti (come in passato ha fatto con le poesie di Alfonso Gatto). Esse creano un campo di forze intorno alle immagini divenendone emanazioni che in fine vengono a costituirsi come delle figure tra figure.
A parte, l’artista impagina dei frammenti di quello straordinario testo che è Conversazione su Dante, facendo proprio lo spunto del poeta russo quando nel saggio stesso scrive: «… il carattere infantile della fonetica italiana, la sua splendida puerilità, la sua somiglianza al balbettio dei neonati, una sorta di connaturato dadaismo». E questa dislalia, questo incepparsi del linguaggio sospeso tra innocenza e saggezza, infanzia e conoscenza (la figura del bambino che legge o che scrive è un motivo ricorrente nell’opera di Caccavale) segna un lavoro che si oppone all’egolalia dominante nel sistema dell’arte contemporanea. E così Mandel’štam scrive del poeta: «dal balbettio lui modella l’esperienza,/ dall’esperienza beve il balbettio».
Questa scienza del mettersi da parte, di obliterarsi nell’opera altrui, significa per Caccavale innanzitutto apprenderne parole, gesti e figure e trasporle in un presente lirico. In fondo egli aderisce al pensiero poetante mandelstamiano di voler fare della propria opera un luogo di convergenza di varie arti. La stratificazione culturale su cui poggia il lavoro di Caccavale ci è rivelata dall’inserzione nel corpo delle figure anche di registrazioni fotografiche.
Esse, più che essere utilizzate come un riscontro dei passaggi in Armenia o nell’arte di Pietro Cavallini e Jan van Eyck ad esempio, lavorano come finestre aperte sulle riflessioni per immagini che l’artista ha maturate finora. Ma non sono lì a chiarire, a spiegare, a rendere intellegibile l’opera, quanto piuttosto a condensare materiali metaforici, tropi dell’infinito concatenamento poetico.
Con questa mostra Caccavale, dopo anni di sole figure e anni di sole parole, agglutina i due elementi facendo di tale connubio il suo terreno attuale di ricerca. Una ricerca che, come ha scritto Pier Luigi Tazzi in un saggio del 2007 dedicato al suo lavoro, «si concentra nel fare, nel costruire lo scrigno prezioso di un ancor più prezioso segreto. Che è il segreto delicato dell’umano, dell’umana vita, che nell’apparire si manifesta in tutto il suo splendore».