Attilio Lolini tiene ferma, pare a me, una sua distinzione tra parola e poesia. Provo a delinearla. Ogni parola gode d’una autonoma, originaria libertà. Esse vivono di vita propria, alitano, fioriscono indipendenti e lumeggiano per accensioni spontanee. Quando oggi le parole accosti, congiungi e l’una all’altra addossi, come avviene nella successione che scandisce un verso, ecco che, spenta la loro libertà, impedita la loro leggerezza, costrette, legate, bloccate, le parole non danno più corso alla poesia. «Lasciamo/che le parole/danzino felici//non metterle in fila/non sappiamo/da dove arrivano/dove vanno//come grilli o lucertole/appaiono senza ragione//chi le ordina/le mette in prigione». Oggi. Il tempo nostro nega la poesia e misconosce il costrutto poetico. Non riconosce l’esigenza di verità che lo muove, non accoglie il frutto di conoscenza che reca. Della poesia, il tempo nostro riconosce la veste esteriore, le maniere convenzionali, i vezzi. Inoffensive, se ovvie e scontate, accetta le «poesie scritte per le carriere di poeta», per dirla con Sebastiano Vassalli, che ha detto: «nel nostro tempo la poesia, se è veramente tale, richiede un prezzo sempre più alto in termini di vita. Un buttarsi via una dissipazione di sé: cosa che Attilio sa fare benissimo». La poesia, auspice Baudelaire, fu perseguibile nel relitto, nel frantume. Quali modi nuovi, oggi, richiede la dissipazione di sé, accertata scaturigine di poesia? Se non è nel legame di parole, quale legame è consono alla resa poetica, ad una attuale conoscenza in forma di poesia, adeguata alla situazione del nostro tempo, «in termini di vita», come dice Vassalli?

Sono numerosi i componimenti di Lolini che pongono al centro l’autore come l’artista che intende dar conto (esibisce, offre, ne mostra i malesseri, lo sciupo e lo scadimento), come in un referto («verifica minuziosa»), del proprio corpo e dei suoi gesti, forniti dunque come ‘dati’. Ad una lettura d’acchito, può sembrare questa modalità in Lolini un rinvio a certo maledettismo letterario. Credo, piuttosto, si possa ritrovare in Lolini una affinità con le poetiche della Body-art, e credo che la sua poesia, in specie alcuni componimenti delle due prime raccolte (Negativo parziale e Notizie dalla necropoli) della metà degli anni Settanta, sia contigua e analoga alle motivazioni delle contemporanee azioni e performances body. «Pigio con la lingua/il gonfio che ho sul palato/il pus cola dal dente nero/scheggiato/che andava tolto/chissà quando//ora ho la bocca piena/di gonfi duri/di natte//nessuno ti dico/vuol mettere le mani/in questa bocca/infetta//è il dentino nero/che mi fa impazzire/l’altra notte/ho provato a cavarmelo/con un cacciavite//sono morto quasi dissanguato/senza che il dente venisse/questo stronzo//me ne sto seduto/senza sbilanciarmi/sennò il male ripiglia/mi trafora il cervello//mi ha detto uno/che è meglio/aprire l’ascesso/con uno spillo//lo spillo si brucia/poi si bucano/queste natte/una volta per tutte//si strizzano in modo/che il pus venga fuori//rinasci se sgonfi/se sputi/tutto il marcio/che ci hai». Ne Il corpo come linguaggio, Lea Vergine considerava che: «Allo stesso modo in cui i bambini si servono delle proprie deiezioni per affermare se stessi di fronte agli adulti, così molti autori di ‘body’ e di performances, esaltano le funzioni escretorie e gli usi e abusi di qualsiasi orifizio». A convalida, ancora una citazione: «(…) ritirata specchio rotto/spio il mio volto/mi capita così mi eccito/diventa duro/me la sparo/poi mi pettino/esco (…)». Oppure: «una volta scrivevo poesie/nelle latrine/sulla carta da culo».

A questa stregua, molti riscontri è agevole rintracciare che fanno intendere come la formazione di Lolini, nel decennio trai Sessanta e i Settanta, si alimenti – tra l’altro – anche di un disagio e di una insoffribilità che gli impediscono il ricorso a canoni acquisiti quanto a modelli che, pur molto amati, non gli sembrano tuttavia perseguibili. Ma Lolini non intercide alla radice ogni educazione ricevuta. Egli ha creato una sua misura. Rara e perfetta, la sua voce sa modulare l’urlo estremo di Hermann Nitsch nelle irresistibili arie e cabalette dell’opera in musica.