Non voglio dire che sia un male, ed è comunque inevitabile, che la nostra editoria guardi con tanta attenzione – è quasi un’ossessione – a quel che succede nell’editoria anglosassone. Ma forse qualche volta varrebbe la pena che lo sguardo fosse ricambiato… Non mi risulta, infatti, che sia mai stata approntata, oltremanica o oltreoceano, un’edizione dei soli «diari» di Byron, analoga a quella curata da Malcolm Skey nell’89 per Theoria, e ora riproposta da Adelphi nella sempre più smagliante traduzione (e con un denso saggio) di Ottavio Fatica, con un titolo che più accattivante non si potrebbe, Un vaso d’alabastro illuminato dall’interno («gli Adelphi», pp. 303, euro 14,00).

Che magnifica immagine! È Byron stesso che la cita, in un appunto del 21 ottobre 1821: «negli ultimi nove anni mi son visto paragonare come persona o come poeta – in inglese, francese, tedesco (nella traduzioni approntate per me), italiano e portoghese – a Rousseau – Goethe – Young – Aretino – Timone d’Atene – a ‘un vaso d’alabastro illuminato dall’interno’, a Satana – Shakespeare – Bonaparte – Tiberio – Eschilo – Sofocle – Euripide – Arlecchino» e via così per un pagina intera. Chissà a chi la si deve: a un amico? un rivale? un’amante piccata? un ammirato recensore? – questa azzeccatissima descrizione? Sono subito andato a rintracciarla nel nono volume della grande edizione Marchand, Byron’s Letters & Journals (1973-’82), ma anche lì il suo ‘autore’ – ammesso e non concesso che esista – non è identificato. E in effetti luccica assai bene anonima, buttata lì tra virgolette, tra l’Anticristo e Timone, il misantropo per eccellenza!

Prima che nel Marchand, dove sono distribuiti in quattro diversi volumi fra le mille e mille lettere, i «diari» – sempre sparpagliati – si leggevano nell’edizione Coleridge-Prothero delle opere complete (1898-1904); e prima ancora nella Life of Byron (1830) del poeta irlandese Thomas Moore, la prima biografia diciamo ‘ufficiale’ di Byron. Leggendola freschissima di stampa, Charles Greville (quasi il Saint-Simon inglese) appuntava nei suoi Memoirs un’osservazione forse meno scontata di quanto possa apparire: «Ancora una parola su Byron e ho finito. Sono stato molto colpito dalla coincidenza di stile fra le sue lettere e il suo diario, e questa mi sembra una prova della realtà e natura [the reality and nature] che prevaleva sia nelle prime sia nel secondo» (3 febbraio 1830).

Con questo, credo, Greville intendeva, con stupore, che anche quando scrive solo per se stesso (nei diari) Byron si atteggia a personaggio non meno di quando butta giù le sue irresistibili lettere; e, al tempo stesso, che quando «posa» per un corrispondente piuttosto che un altro, egli è sempre anche perfettamente «naturale» come se fosse solo. Cosa abbastanza ovvia per il «Diario Alpino», tenuto dal 18 al 28 settembre 1816 per raccontare all’amatissima (nel senso anche proprio di «amante»!) sorellastra Augusta i paesaggi e i sentimenti che, di lì a qualche mese, sarebbero stati trasfusi nel Manfred. Ma che vale senza dubbio anche per il «Diario londinese» (14 novembre 1813-19 aprile 1814), il «Diario ravennate» (4 gennaio-27 febbraio 1821) e i cosiddetti «Pensieri slegati» scritti a Pisa fra il 15 ottobre del ’21 e il 18 maggio del ’22.

Una delle soddisfazioni di disporre in un volume autonomo, e quindi poter leggere di seguito, diari tenuti in modo tanto discontinuo, è che tra le pagine (inglesi) del ’13-’14 e quelle (italiane) del ’21-’22 si instaura un gioco suggestivo di rimandi e rispecchiamenti. Descritta in presa diretta nel diario del ’13-’14, la Londra della Reggenza, coi suoi dandy e la sua girandola di occasioni sociali, spietate come campi di battaglia, riaffiora continuamente nei «Pensieri slegati», appuntati a Pisa sull’onda lunga della delusione – atteggiata e reale – per il fallimento dei moti carbonari del ’21, prima che a cattivare il genuino liberalismo di Byron si profilasse la causa dell’indipendenza greca. Quell’ennui un po’ stucchevole che permea molte pagine londinesi si trasforma, nei «Pensieri» pisani, nella vera sostanza della malinconia, toccando note di grande commozione.

Penso, ad esempio, al meraviglioso ritratto di Richard B. Sheridan, che Byron realizza qua e là, zigzagando nella memoria, con pennellate delicate e distratte. Ecco il poeta e drammaturgo geniale («non c’è mai stato alcunché di simile dai tempi di Orfeo») – ma umiliato e distrutto dall’alcol, arrestato dalle guardie «per schiamazzi in luogo pubblico» la sera stessa «del grandissimo successo della sua School of Scandal». Ecco l’uomo politico ‘Whig’, che – piangendo, vuoi per la sbornia vuoi per l’intensità del sentimento – ricorda ai suoi colleghi di partito più ricchi e titolati quanto sia difficile attenersi agli stessi princìpi liberali per coloro che, altrettanto orgogliosi, «non hanno mai saputo nel corso della loro esistenza che cosa volesse dire avere uno scellino tutto per sé» (e Byron aggiunge, nel pensiero successivo: «peraltro faceva in modo di spillarne parecchi dalle tasche degli altri»). Ecco infine (ma s’incontra venticinque pagine prima) il gran finale comico-straziante: «Alla richiesta di sottoporsi a ‘un’operazione’, Sheridan in fin di vita replicò che ne aveva già subite due, che nel corso di una vita erano più che sufficienti. – Alla domanda quali fossero, rispose: ‘Farsi tagliare i capelli – posare per il proprio ritratto’».

I diari sono disseminati di aneddoti di questo genere; e d’aforismi («ho iniziato a invecchiare nella mia stessa stima – e nella mia stima l’età è poco degna di stima») e di generosi o taglientissimi giudizi letterari, tanto sui classici quanto sui contemporanei (fra i quali, forse a sorpresa per il gusto d’oggi, Byron venera Walter Scott). Non vi si cerchi, invece, se non proprio a sprazzi, il racconto della vita di Byron (cui suppliscono un’efficace Cronologia e il Regesto dei personaggi citati); del resto è assai probabile che anche le leggendarie «Memorie» che, ancor prima del funerale di Byron, furono date alle fiamme nell’ufficio dell’editore Murray, fossero notevoli più per le omissioni – i vuoti – che per le rivelazioni contenute.

Qualcosa, naturalmente, traspare comunque. Ad esempio, la passione per una lontana cugina, Mary Duff, quando entrambi erano poco più che bambini: «Da quell’epoca avrò provato, e provo, sentimenti amorosi una cinquantina di volte eppure lo strazio, l’amore per quella ragazza erano così violenti che a volte dubito di aver realmente nutrito certi sentimenti dopo di allora». Cui sembra far da ironico contraltare l’apparente disincanto con cui ha inizio il corteggiamento di Annabella Milbanke: «Che curiosa situazione e amicizia è la nostra! – Senza un briciolo d’amore da parte di nessuno dei due e frutto di circostanze che di norma portano da un lato alla freddezza e dall’altro all’antipatia. È una donna davvero superiore e, cosa strana per un’ereditiera, pochissimo viziata. È una poetessa – una matematica – una metafisica, eppure è al tempo stesso dolcissima, gentile e generosa, quasi priva di presunzione» (30 novembre 1813). Quante virtù in una sola giovane donna, una donna che si direbbe incarnare – sul piano della soavità – le stesse violente contraddizioni del futuro sposo! Come non prevedere, già allora, che il loro matrimonio sarebbe durato solo un anno d’inferno? In filigrana sembra quasi di leggervi le ultime righe della pagina del «Diario alpino» del 23 settembre 1816: «Costeggiato interi boschi di pini rinsecchiti – completamente rinsecchiti – tronchi spogli e senza corteccia – rami senza vita – tutto per via di un solo inverno – il loro aspetto mi ha fatto pensare a me e alla mia famiglia».