Giusto vent’anni fa, sempre da queste colonne, lamentavo la più completa assenza dei libri di Aldo Buzzi dai cataloghi degli editori. Era da poco uscito, per Ponte alle Grazie, La lattuga di Boston. Diario di un attimo, e però mi domandavo come mai risultassero praticamente introvabili il Taccuino dell’aiuto regista (1946), Quando la pantera rugge (1972), Piccolo diario americano (1974), L’uovo alla kok (1979), Andata & ritorno (1984), Viaggio in Terra delle mosche e altri viaggi (1987), Cechov a Sondrio e altri viaggi (1991) e Stecchini da denti del 1995. Quella dello scrittore lombardo, nato a Como nel 1910, si poteva a quell’altezza di tempo definire come una sorta di presenza-assenza, nel mentre invece il suo esile mito andava sostanziandosi senza troppo clamore, con discrezione, con quel garbo che bene si addiceva al gran signore che continuava in silenzio a rimetter mano alle sue carte, chiuso nella casa milanese di Lambrate, in un work in progress minimale fatto di poche aggiunte e di varianti millimetriche.
Anche negli anni estremi della sua lunga vita – sarebbe morto nel 2009 – Buzzi non sembrava avere fretta. Metteva ordine nel proprio archivio e raccoglieva la corrispondenza, protrattasi per oltre mezzo secolo, dal 1945 al 1999, con l’amico Saul Steinberg (le lettere sono state pubblicate, «a cura del destinatario», da Adelphi nel 2002, e qui occorre ricordare che fu lui, insieme a Saul Bellow, a pronunciare l’orazione funebre davanti al feretro del grande disegnatore e illustratore). Steinberg – serve ancora sottolinearlo con forza – fu l’interlocutore privilegiato, il compagno nemmeno troppo segreto di Buzzi, una presenza costante nei suoi racconti e nei resoconti di viaggio (viaggi spesso compiuti insieme in continenti diversi e lontani), un alter-ego, il tu ideale al quale rivolgere impressioni di ogni genere (intorno a passeggiate, letture, visioni di città e di tipi umani) e con cui condividere esperienze anche minime e sguardi di fraterna intesa, senza contare la comune collaborazione al «New Yorker» e la passione per l’America («Il mio cognome, Buzzi, per essere pronunciato correttamente dagli americani dovrebbe essere scritto così: Bootsie»).
Poi, dopo il 2000, qualcosa cominciò a muoversi e a cambiare. Riapparvero nelle librerie il Taccuino, L’uovo alla kok, gli Stecchini e inoltre, sempre per Ponte alle Grazie, nel 2006, una nuova raccolta, Parliamo d’altro, e infine Un debole per quasi tutto, titolo che già di per sé è una dichiarazione di poetica oppure, meglio, l’epigrafe perfetta che sta in esergo, commovente segnavia, a una vita intera, segnata da molte passioni, dall’architettura (Buzzi si laureò al Politecnico di Milano) al cinema (suo compagno di studi fu Alberto Lattuada, che diventò suo cognato e che lo convinse a lavorare in quel mondo, in qualità di aiuto-regista, sceneggiatore, scenografo e costumista, ad esempio con Luigi Zampa e Comencini), dai viaggi alla buona cucina.
Questi interessi non potevano non diventare oggetti e soggetti di scrittura, e ora lo vediamo con chiarezza grazie alla pubblicazione di un volume, bellissimo e prezioso, che raccoglie Tutte le opere (a cura di Gabriele Gimmelli e con una introduzione di Antonio Gnoli, La nave di Teseo «le Isole», pp. XXXII-566, euro 35,00), corredato dai disegni di Steinberg, da un ottimo, accurato apparato bio-bibliografico e da un nutrito inserto fotografico in cui, tra l’altro, vediamo l’autore accanto a Dino Risi, a Fellini e a Flaiano oltre che con la moglie Bianca, con Lattuada e con lo stesso Steinberg. Tutte le predilezioni, le amicizie, le possibili genealogie sono apertamente nominate senza infingimenti o nascondimenti. I nomi vengono richiamati, e a volte invocati, senza soluzioni di continuità: stanno nella luce abbagliante di queste prose brevi dalla cifra stravagante, inclassificabile e nel disincanto dolente e lucido di chi considera ogni nozione di Verità (con la maiuscola) come una iattura, come uno smacco all’immaginazione.
Vi troviamo i maestri non autoritari della svagatezza lucida, i satirici ulcerosi, i nipotini del saggio Nathan. O gli artefici del narrare breve, i martiri dell’autobiografismo, i diaristi, qualche provinciale nevrotico e piagato. Maestri, compagni di strada, commensali («lo scrittore che non parla mai di mangiare, di appetito, di fame, di cibo, di cuochi, di pranzi mi ispira diffidenza, come se mancasse di qualcosa di essenziale»). Allora ecco il goloso Gadda; ecco Flaiano (ma il lombardo, a differenza dell’abruzzese, non era un moralista e di sicuro non si sarebbe mai giocato la vita per una chiusa caustica, fulminante); quindi il dimenticato Giuseppe Mazzaglia, l’autore catanese di Anna Paola Spadoni e della Pietra di Malantino, e, a seguire, Velso Mucci, Antonio Delfini, Achille Campanile, Paolo Valera (Milano sconosciuta è un libro pieno di osterie), Giovanni Comisso, Sinisgalli e Carlo Dossi, il Dossi in specie delle Note azzurre, con il quale Buzzi pure animatamente discute perché – precisa – non è che capisse molto di poesia se è vero che quelle delle Fleurs du mal gli parevano «brutte» e «definiva Leopardi “poeta «mediocre”» e, come se non bastasse, «Sainte-Beuve “fra i critici asinissimo”». O, ancora, il vigevanese Lucio Mastronardi, a cui vengono dedicate parole di grande affetto e pietà: «dopo il primo tentativo di suicidio (il 3 novembre ’74, buttandosi dal balcone del suo salottino al quinto piano) gli era nata una bella bambina, che ora portava a spasso sotto i portici della piazza, lui davanti e la figlia, che aveva chiamato Maria, dietro. Buttandosi dal balcone, senza prima guardare sotto, era finito sul bagagliaio di una 128 gialla posteggiata sotto casa, e questo aveva un po’ attutito il colpo. Mastronardi, ferito alla spalla, alla mandibola, al piede, si era alzato da solo, andando a sedersi sull’orlo del marciapiede. Erano le tre di notte».
Buzzi è un ironista che possiede la grazia della compassione. Avendo lavorato nel cinema in un’epoca lontana e gloriosa, sapeva quanto fosse fragile una pellicola e fino a che punto essa potesse assottigliarsi e sbiadire. Era consapevole che il tempo lavora contro quel materiale fragile eppure tagliente se maneggiato male e con noncuranza. Una simile consapevolezza, sulla pagina, si trasforma in sentimento stilistico, in andatura sintattica, in specchio esatto di un punto di vista ben protetto da ogni forma di illusione. Di qui l’attenzione alla vita materiale e alle sue risorse. Egli registra ricette di cucina, visita e descrive ristoranti e trattorie, cammina per la strada, legge e trascrive lapidi ed epigrafi, osserva con curiosità busti di marmo e monumenti. Si lascia seguire dal lettore per le strade di Djakarta e, dopo qualche pagina, per quelle di Crescenzago, di Gorgonzola e di Lambrate, il suo quartiere. O nella natia Como, dove «chi, passando davanti al duomo, si ferma un momento a osservare la statua di Plinio il Vecchio, che con quella di Plinio il Giovane decora la facciata, resta sorpreso: il Vecchio appare piuttosto giovane, il suo viso non ha niente di romano: potrebbe essere un anglosassone; anzi, il ginocchio sinistro che sporge in fuori nudo, con il magro polpaccio ricoperto da uno stivale romano di fantasia che sembra un calzettone, lo rende simile a uno scozzese, uno scozzese che stringe fra le dita della mano destra un invisibile bicchiere di Scotch». Non da ultimo, insomma, si deve a Buzzi un ritratto dell’Italia così come può immaginarla un signore di Panama che l’autore incontrò durante un lontano soggiorno sudamericano: «“El solo nombre de Italia irredenta al pronunciarse. Delata su cultura, su immensidad artistica… Sus hombres directrices en la historia como también sus mujeres… tales como Mussolini, Carusso, Colón, Gabrielle D’Anuncio, Iollitti, Gallicuci, Dante, Garibaldi, Da Vinci, Fiat, etc. etc.”». Vale a dire, in altri termini, il paese del melodramma.