Mentre aumenta l’attenzione verso gli allevamenti intensivi e la necessità di modificarli radicalmente per risolverne le implicazioni ecologiche e sanitarie, nel nostro Paese ci sono ancora situazioni in cui la battaglia per fermare il numero di capi allevati in batteria non è diminuita, anzi. È il caso di Schivenoglia, piccolo comune nel mantovano. Situato in una delle zone più dense di allevamenti intensivi (843, secondo l’anagrafe zootecnica, con 1.055.407 suini presenti nella provincia), la frazione ospita un numero di maiali ben superiore a quello dei suoi abitanti: circa 6.700 capi contro i mille residenti. Un numero che rischia di aumentare, se il nuovo progetto dei proprietari di uno dei due allevamenti già esistenti, la Biopig, venisse avallato. La ditta ha infatti recentemente proposto a Comune e Provincia la ristrutturazione di un vecchio allevamento risalente agli anni ‘60 e ormai quasi dismesso, proponendo di crearne uno nuovo con ulteriori 4 mila suini. Un gruppo di cittadini, riunitosi nel Comitato aria pulita Gaeta (Giustizia Attenzione Ecologia Territorio Ambiente), ha presentato un ricorso al Tar chiedendo che vengano attuate le normative in vigore prima di concedere l’autorizzazione a un tale progetto, di cui mette in evidenza due grandi anomalie: il fatto che la Provincia ha ritenuto che non sia da sottoporre a Valutazione di Impatto ambientale (Via) e che la ditta abbia presentato una Segnalazione Certificata di Inizio Attività (Scia) alternativa al permesso di costruire, che non prevede i pareri degli enti di controllo.

Già nel 2017 il comitato Gaeta si era opposto al progetto di installazione da parte della stessa azienda di un impianto che avrebbe dovuto ospitare altri 10 mila suini all’interno dello stesso comune. Il comitato, preoccupato per il forte impatto ambientale su un comprensorio così piccolo, aveva promosso un referendum con il quale la popolazione si espresse contrariamente alla possibilità di concedere una deroga all’azienda rispetto al Piano di Governo del Territorio (Pgt), che vieta di costruire nuovi insediamenti suinicoli e di ampliare quelli esistenti nel comune.

La validità del contenuto del Pgt era stata poi riaffermata dal Tar, che in quell’occasione bocciò il ricorso della ditta affermando che è potere e dovere dei sindaci controllare che siano rispettati i vincoli in materia ambientale e sanitaria.

La sentenza è ormai definitiva, ma la Biopig in quel frangente riuscì ad acquistare la proprietà su cui oggi vorrebbe intervenire, cercando di barattare il consenso delle istituzioni in cambio della proposta di bonifica del sito. Il vecchio allevamento era stato infatti descritto dalla stessa amministrazione comunale come una «bomba ecologica», proprio perché mai bonificato in più di mezzo secolo di attività insalubre. Già all’epoca il comitato Gaeta dissentì pubblicamente rispetto alla natura dello scambio proposto, intravedendo il rischio che la bonifica si sarebbe potuta di fatto tradurre in una semplice eliminazione dell’amianto dai vecchi edifici e non in quella più approfondita realmente necessitata.

Uno degli aspetti centrali sui cui il comitato e i tecnici che lo supportano auspicano un intervento è per esempio l’inquinamento del suolo e delle falde acquifere, dimostrato dai pozzi analizzati di alcuni privati che vivono nelle aree compromesse. L’eccessiva vicinanza alla popolazione (alcune case si trovano a circa 100 metri dalle stalle) è un’altra delle incongruenze denunciate dal gruppo. A tutto questo si deve aggiungere l’inquinamento acustico e atmosferico dovuto al traffico di centinaia di camion che già adesso attraversano il paese per lo spargimento dei liquami sui terreni; l’impatto che gli allevamenti hanno nel rilasciare cattivi odori e sulla qualità dell’aria, soprattutto in una zona come quella della pianura padana in cui quest’ultima è già fortemente compromessa.

Ad aumentare la preoccupazione dei cittadini c’è anche il dato dello scorso aprile che ha visto Schivenoglia come uno dei comuni più colpiti dal Coronavirus rispetto al numero dei suoi abitanti.

«Se la tendenza espressa da diverse associazioni nazionali e anche in Europa è quella di ridurre il numero degli allevamenti e di cambiare le modalità di produzione di cibo in funzione dell’impatto che hanno sull’ambiente e sulla salute, soprattutto in questo periodo in cui si è parlato molto della possibile correlazione con la pandemia, autorizzare un progetto del genere senza la Valutazione di Impatto Ambientale prevista dalla legge è per noi azzardato e anacronistico», spiega Maura Cappi, presidente del comitato Gaeta, «di fronte alle evidenze che mettono in relazione gli allevamenti intensivi con patologie un tempo sconosciute, crediamo sia imprescindibile non banalizzare i numeri, ma valutare tutto ciò che è necessario fare per preservare la salute dei cittadini. Quello che chiediamo è che quantomeno siano attuate le norme vigenti». I lavori di costruzione delle stalle continuano, ma il gruppo attende i primi esiti della battaglia dall’udienza che si terrà agli inizi di settembre.