Quando si tenta di mappare l’anima nel dramma in musica, come ha fatto il Macerata Opera Festival nell’ultimo triennio, quasi inevitabilmente si sprofonda nella sfera del Femminile, che si porta dietro un paradosso significativo: mentre viene usato come centro vocale-drammaturgico del teatro d’opera, il Femminile è il grande Altro della cultura che ha generato quello stesso teatro.

Storicamente il cervello e il braccio (impresari, compositori, direttori, macchinisti ecc.) nel mondo dell’opera sono uomini, mentre alle donne (ovviamente non solo a loro, ma onestamente soprattutto alla spettacolarità della loro voce) è affidato il compito di incarnare ciò che gli uomini hanno pensato e predisposto. Come le protagoniste eponime delle tre opere in cartellone (Madama Butterfly, Turandot, Aida), tragicamente dibattute tra asservimento e autodeterminazione.

La geisha adolescente Butterfly, che vive nell’immaginario dell’uomo americano che ama, lasciandosene colonizzare, deprivandosi della sua cultura e perfino del figlio, sceglie il suicidio per liberarsi dell’illusione in cui ha vissuto, intelligentemente rappresentata, nell’allestimento di Nicola Berloffa (con scene di Fabio Cherstich e costumi di Valeria Donata Belella), dalle sequenze di film prodotti da Hollywood (altra industria maschile che fa merce del corpo femminile) negli anni Quaranta in cui è trasposta la vicenda.

Aida, principessa etiope schiava della figlia del Faraone e innamorata di Radames, incaricato di guidare le falangi egizie contro il popolo di lei, con coerenza patriottica salva quest’ultimo inducendo Radames al tradimento, poi con coerenza amorosa decide di morire con il suo uomo, mettendo in scacco il disegno del gran sacerdote Ramfis, che nell’allestimento diagrammatico e proiettivo di Francesco Micheli, unica scenografia l’enorme laptop ideato da Edoardo Sanchi (che richiama il Libro dei Morti, testo sacro egizio), è artefice e regista di tutto.

Turandot, invece, in apparenza donna fallica e dominatrice, ma in realtà ragazza che ha denegato ogni forma di eros, sembra vinta dal desiderio prima di riscatto e poi sessuale del principe deposto Calaf, ma in realtà, potendolo ancora mandare a morte, sceglie liberamente di donarsi a lui e di concedersi la possibilità di amare, come sottolineato nell’allestimento anti-orientalistico di Ricci/Forte (già recensito su queste pagine da Andrea Penna).

Tre riletture sceniche, dunque, ardite e suggestive, al netto dei nodi drammaturgici non sciolti: una vera e propria impresa per un Festival che fino a qualche anno fa sembrava spacciato e che, grazie all’intelligenza del sovrintendente Luciano Messi e del direttore artistico Micheli, è tornato a nuova vita. Un Festival al femminile, si diceva, anche nel senso di un trittico di edifici vocali tenuti in piedi dalle interpreti dei ruoli principali. La Butterfly di Maria José-Siri, l’Aida di Liana Aleksanyan assieme alla Amneris di Anna Maria Chiuri e la Turandot di France Dariz (sostituta dell’infortunata Iréne Theorin) assieme alla Liù di Davinia Rodriguez, sono state i pilastri delle tre opere, facendo ombra ai tenori comprimari: disastroso il Pinkerton di Antonello Palombi, spesso stonato il Calaf di Rudy Park, ancora acerbo il Radames di Stefano La Colla.

Assai meglio i bassi di Aida (Giacomo Prestia e Cristian Saitta), accompagnati dalla direzione sicura e ricercata di Riccardo Frizza. Lo stesso si dica della tempra di Pier Giorgio Morandi, direttore di Turandot. Convince meno Massimo Zanetti sul podio di Madama Butterfly, a tratti vittima dell’inerzia.