Il cantiere degli studi sulla Roma artistica tra Sei e Settecento vede aggiungersi un’altra, interessante, iniziativa nel Dizionario portatile delle arti a Roma in età moderna (Campisano Editore, pp. 504, euro 40,00). I suoi curatori – Giovanna Capitelli, Carla Mazzarelli e Serenella Rolfi Ozvald – portano avanti un progetto che è improntato a una chiara logica classificatrice e scompone il corso storico e culturale dell’Urbe tra i secoli XVII e XVIII intorno a qualche decina di parole chiave. L’antologia raccoglie, infatti, una serie di contributi scientifici a firma di vari studiosi che affrontano temi di carattere generale o più esclusivo, prefiggendosi così di sciogliere i fili dell’aggrovigliata biografia dell’arte romana d’età moderna.
Ci sono testi che si avventurano in quella che è l’ossatura di un qualunque discorso critico – e insieme un labirinto senza via d’uscita – ovvero l’indagine linguistica sulle parole usate per identificare i valori estetici dell’arte («Barocco» di Tomaso Montanari e «Classicismo» di Pierre Rosenberg). Si segnalano, poi, capitoli di carattere diligentemente introduttivo, a scandagliare i fondamenti e le specificità della cultura figurativa romana (ad esempio, «Busto ritratto» di Andrea Bacchi, «Canonizzazione» di Raffaella Morselli, «Cappelle, marmi policromi» di Daniela Gallavotti Cavallero e «Arcadia» di Stefano Cracolici). Vanno ugualmente messe in evidenza le voci «Franzesi e Fiamenghi» di Olivier Bonfait, «Copie e copisti» di Carla Mazzarelli, e ancora il saggio intorno alle ricadute del nepotismo pontificio sul volto dell’Urbe elaborato da Aloisio Antinori. Con i lemmi «Ritratto del Grand Tour» e «Neoclassicismo», opere di Sabrina Norlander Eliasson e di Orietta Rossi Pinelli, invece, prende forma un’estensione della visuale fino al Settecento inoltrato.
L’impostazione enciclopedica rende l’opera assai più adatta alla consultazione che a una lettura ordinata; come un valido prontuario che, frazionato e travasato, possa tornare utile per l’avvio di un qualunque studio specialistico intorno alla cultura artistica sviluppatasi entro queste coordinate spazio-temporali. Resta al lettore prendere questo svolgimento così com’è, strutturato a pezzi smontabili, oppure tentare di ricomporlo attraverso centinaia di possibili giochi d’interazione tra chiavi di lettura.
La parabola discendente
Sarebbe impossibile seguire qui questa prima traccia, e dare conto in maniera dettagliata e completa delle ottantadue storie che figurano nel corposo volume. Più facile, allora, propendere per la seconda strada e cercare, tra quelle possibili, una trama comune ad alcune di queste narrazioni. Ad esempio, nella parabola ad andamento discendente che travolge Roma dentro questo arco cronologico: partita nel Seicento come indiscusso centro di potere culturale per l’Europa tutta, la città è declassata nell’immaginario comune, già a partire dalla fine del secolo, a poco più che un museo a cielo aperto di antica gloria, congelata in un eterno passato dove la classicità tiranneggia sul presente.
Vale la pena di accennare, a titolo dimostrativo, agli scritti di storia istituzionale sull’Accademia di San Luca (Stefania Ventra) e l’Académie de France (Stéphane Loire), perché è sulla scorta della contrapposizione alle strategie anti-individualiste e accentratrici dell’Académie royale de peinture et de sculpture di Parigi che l’Accademia romana viene per la prima volta faccia a faccia con le sue croniche debolezze. Nel secolo del Barocco il sodalizio degli artisti romani si trascina avanti sovraccarico di regole – e, quindi, sregolato – e corroso da più parti. Forte di un robusto sostegno economico e sociale (che è anche vincolo di fedeltà politica), l’Académie è, invece, la cassa di risonanza dell’assolutismo intellettuale di Luigi XIV e del ministro Jean-Baptiste Colbert, chiamata ad amministrare «la cosa più preziosa della terra», la fama del re. Ha gioco facile, perciò, nel mettere a punto uno spregiudicato revisionismo che tratta l’Italia alla stregua di un figliol prodigo a corto di risorse dopo averle scialacquate e che incorona la Francia come erede legittima della grande tradizione rinascimentale.
A questo proposito giova riferirsi al saggio «Vocabolario degli stili» di Alessandro Agresti che, passando in rassegna formule storiografiche come «tardobarocco», «barocchetto», «rococò» e «classicismo arcadico», certifica la fine dell’egemonia romana quale baricentro del gusto contemporaneo. Tant’è vero che, come rilancia Stefano Pierguidi nel contributo «Scuola romana», le sorti di quella tradizione pittorica sul piano internazionale restarono ancorate nel Settecento a un giro strettissimo di nomi (e tra questi, quello di Pompeo Batoni).
Un omaggio a Liliana Barroero
La natura del Dizionario portatile oscilla tra due generi. Se è vero, infatti, che la sua impostazione adotta la scansione per lemmi dal formato enciclopedico, è altrettanto reale che la sua identità più profonda risiede in un omaggio corale alla storica dell’arte Liliana Barroero. Dizionario sì, ma anche liber amicorum, quindi, che abbraccia e celebra le tante curiosità scientifiche della studiosa e si propone (sul modello del volume Arte 2 dell’Enciclopedia Feltrinelli-Fischer, curato da Giovanni Previtali nel 1971) come una guida metodologica alla portata di tutti per «ritessere le fila sugli interrogativi ancora aperti sulla complessa geografia artistica di Roma».
Per restare nello stesso filone a tema «Roma moderna e le arti», la casa editrice Arte’m ha mandato alle stampe il volume di Giuseppe Porzio dal titolo Francesco Trevisani per il cardinale Ottoboni Il sogno di san Giuseppe (pp. 48, euro 15,00). Il libro lancia alla nostra attenzione la riscoperta visiva di un quadro che è nel Museo Correale di Terranova a Sorrento e che, risalendo a ritroso nella genealogia collezionistica, appartenne al cardinale napoletano Tommaso Ruffo, e prima a Pietro Ottoboni, nipote di papa Alessandro VIII. Un recente restauro ha conseguito i molteplici meriti di esaltarne la finezza della stesura pittorica, di chiarirne il tema iconografico (non la rivelazione della natura divina di Gesù, bensì l’avvertimento sulla strage degli innocenti) e di confortare Porzio nel riferirne l’autografia a Francesco Trevisani.
L’attribuzione tiene conto sia del dato stilistico – il dipinto è sintonizzato, infatti, su quella recrudescenza di ombre, o tenebrismo, che dilaga nella Roma di fine Seicento e colpisce anche il Trevisani – che di quello documentario, dal momento che di un’opera siffatta si trova riscontro negli inventari antichi e nella biografia di Lione Pascoli.
Nella quadreria del cardinal Ruffo
La quadreria del cardinale Ruffo ospitava, tra le altre cose, una Pentecoste di Giuseppe Ghezzi, il Ritratto di Juan de Pareja di Diego Velàzquez e un Martirio di san Gennaro di Luca Giordano. Il primo di questi, insieme al Sogno di San Giuseppe, figura oggi a Sorrento, mentre gli altri due sono esposti rispettivamente al Metropolitan Museum di New York e alla National Gallery di Londra. Questa circostanza porta l’autore a sostenere che «il declino e la perdita della memoria» toccati in sorte alla prima coppia di quadri, pur facendo i conti con le debite distanze qualitative rispetto agli altri due, siano qualcosa di più che una coincidenza, ma «un sintomo della condizione di subalternità culturale che a lungo ha ostacolato la giusta collocazione storica degli oggetti d’arte conservati sul territorio meridionale e ancora non cessa di far sentire il suo peso». Una riflessione da non lasciar cadere.