Che fine ha fatto Josef K.? Come un residuato bellico vive di bizzarre congiunture, prigioniero di se stesso in una soffitta ingombra di cose inutili, cianfrusaglie, trovarobato da bancarella di periferie, macchine celibi di novecentesca memoria. Dal cuore di tenebra del Kafka del Processo, Roberto Abbiati e Claudio Morganti, fanno brillare sul palcoscenico del Magnolfi, una esilarante partitura. Perché sono solo suoni, niente parole, quelli che abitano questo Circo Kafka messo in piedi dai due con artigianale perizia, utilizzando oggetti e materiali di recupero, come un baraccone del paese dei balocchi, in viaggio premio in un mondo di marionette. Abbiati, un Buster Keaton muto e stralunato, recita il suo Josef K. tutto sussurri e gridolini, occhiate e stupori, smorfie e ammiccamenti. Morganti lo dirige con giocoso altruismo ma è impossibile distinguere l’uno dall’altro. Poi Abbiati balla da solo, suona la cornamusa, fischietta l’armonica, si sdoppia, si veste e si traveste, immerso in un bric à brac che sa di squisito chiacchericcio drammatico (prezioso il contributo sonoro dal vivo di Johannes Schlosser), tanto da esalare profumi nobili, da Brecht a Grosz, da Beckett a Kraus.