Lo scorso settembre l’Italia ha approvato in via definitiva la Convenzione quadro del Consiglio d’Europa sul valore del patrimonio culturale per la società, presentata nella città portoghese di Faro nel 2005 e sottoscritta dal nostro paese nel 2013. Nell’affermare che la conoscenza e l’uso del patrimonio culturale, inteso come l’insieme delle risorse ereditate dal passato, rientrano pienamente fra i diritti umani, il trattato accorda un ruolo attivo alle «comunità di patrimonio». A queste ultime appartengono, negli intenti della Convenzione, quei gruppi di persone che attribuiscono il medesimo valore ad aspetti specifici dell’eredità culturale e che desiderano, nel quadro di un’azione pubblica, sostenerli e trasmetterli alle generazioni future.

MALGRADO LA RATIFICA abbia suscitato polemiche da parte della Lega e di Fratelli d’Italia, persuasi che il documento rappresenti una «resa culturale» nei confronti delle «minorità» etniche, i principi su cui si basa sono stati recepiti in alcuni ambiti ben prima della sospirata firma. È il caso dell’Archeologia o meglio di quanti, fra gli archeologi, hanno compreso che il futuro di una professione finalmente «codificata» risiede nell’alleanza con la società civile. Il patrimonio archeologico e, in generale, quello culturale possono infatti favorire i processi di sviluppo economico, politico e sociale, e apportare un contributo alle strategie di pianificazione del territorio.
Tali prospettive vengono analizzate da Giuliano Volpe nel volume dal titolo Archeologia pubblica. Metodi, tecniche, esperienze (pp. 260, euro 25), edito da Carocci nel 2020 e appena ristampato. Se la Convenzione di Faro è approdata in Italia con quindici anni di ritardo, inevitabilmente priva dell’originaria spinta innovativa, anche l’Archeologia pubblica – definita da Volpe come quel filone di studi che mira ad approfondire, mediante l’impiego di molteplici strumenti, il rapporto tra l’archeologia e il pubblico (o meglio i pubblici) e le relazioni tra archeologia e società contemporanea – si trova ancora allo stadio di sperimentazione. Eppure la Public Archaeology nacque mezzo secolo fa in Nord America, quando Charles R. McGimsey propose di identificarla con la gestione del patrimonio culturale, e con la didattica e la divulgazione archeologica.

L’ALTRA GRANDE SCUOLA internazionale di Archeologica pubblica fiorì verso la fine del Novecento in Inghilterra attorno alla figura di Peter Ucko, il quale si concentrò sulle interazioni fra archeologia e un pubblico costituito sia dalle istituzioni che dalla «gente». Un argomento centrale nell’Archeologia pubblica inglese riguarda il colonialismo e la responsabilità degli archeologi nell’inclusione delle ex colonie e dei paesi in via di sviluppo nella salvaguardia della loro memoria culturale (anche negli Usa, in riferimento ai nativi americani e agli afro-americani, il tema della Indigenous Archaeology è stato ed è tra quelli prevalenti).
Benché in Italia alcuni archeologi, fra cui spicca il medievista Riccardo Francovich, siano inconsapevolmente stati dei pionieri nel campo dell’Archeologia pubblica intesa soprattutto come divulgazione e fruizione dei beni culturali, il libro di Volpe assume la forma di un manuale, che ripercorre la storia della disciplina in una dimensione internazionale, declinandone al contempo le caratteristiche, per poi passare in rassegna le più significative esperienze italiane, sia nella sfera della ricerca che nel settore della valorizzazione e dell’amministrazione del patrimonio «dal basso».

TUTTAVIA, il volume lascia aperti numerosi interrogativi sulle attività che contraddistinguono l’Archeologia Pubblica. È lo stesso autore a mettere in guardia sul rapporto, talvolta complesso, tra archeologi e comunità locali in aree segnate da conflitti politici e religiosi, come la Palestina, o in territori in cui correnti nazionaliste utilizzano l’archeologia a fini ideologici e identitari (ciò accade attualmente in Sardegna con la candidatura dei Nuraghi alla lista del patrimonio mondiale dell’Unesco proposta dai Riformatori Sardi). Ma anche metodi ritenuti da Volpe perfettamente funzionali a una gestione democratica del patrimonio, come l’uso dei volontari in fondazioni private sul modello del Fai, o lo «sdoganamento» di una comunicazione volta a trasformare musei e parchi archeologici in brand di successo, impone una riflessione. Tali pratiche sembrano infatti orientate a una visione commerciale ed effimera dell’archeologia, lontana da quello slancio filantropico che ha promosso la comparsa di un’Archeologia partecipata, eticamente condivisa tra gli specialisti e la comunità dei non addetti ai lavori.