«Quello che sento io non è niente di speciale, non ho niente di speciale nel mio sentire, a parte il dargli una forma e dare al mondo questa forma, se è solo per sentire sentiamo tutti la stessa sensazione e nello stesso modo se resta inespressa», così scriveva Aldo Busi, in E io, che ho le rose fiorite anche d’inverno? circa dieci anni fa, nel 2004. Dare una forma al sentire, dare questa al mondo, esprimere il sentire è progetto integrale, disposizione che coincide con la vita e con la scrittura, con quel lavoro sulla forma – il modo peculiare in cui le parole si succedono l’una all’altra – che per Busi costituisce il testo letterario. Con leale coerenza, è sempre l’espressione a rendere speciale il sentire di Busi e a garantirgli quanto rivendica per sé stesso, contro gli scribacchini di cassetta mai abbastanza stigmatizzati dai critici, ovvero essere autore di letteratura. Che significa autore di libri non intenzionalmente commerciali (anche se i suoi hanno venduto e vendono molto, pure adesso che lamenta di non avere un editore); libri non asserviti alla battente logica cultural-mercantile, di fatto politica fin nelle sue fibre, che ha determinato l’analfabetismo di ritorno e ormai di origine, anche in chi legge (consuma) tanta stampa di consumo. Vacche amiche (un’autobiografia non autorizzata), il nuovo libro di Busi edito da Marsilio (pp. 177, euro 15,00), non smentisce l’affidabilità dell’autore e dei suoi principi etici ed estetici, che non sono soltanto legati da vincolo reciproco, ma nel suo caso coincidono perfettamente, si identificano gli uni negli altri. Solo uno scrittore «che al contempo sia un uomo libero, libero da barriere di rispetto e da autocensure che non siano quelle inerenti l’estetica del linguaggio e dell’economia dell’opera in sé e per sé» può scrivere un’opera di letteratura, che è sempre e soltanto, a giudizio di Busi, «un romanzo contemporaneo». E romanzo, a voler credere alla copertina, è anche Vacche amiche, ma il genere per fortuna non gli calza a pennello, pur essendo un testo di ritmo narrativo, fluente, generoso di episodi, e senz’altro letterario. Nella sua opera la questione del genere è antica e i risultati fecondi: temi e tratti di stile si succedono in modo a volte rapsodico, e di certo non mancano frizioni o passaggi di tono disinvolti se non bruschi, sempre funzionali all’economia del singolo testo. Qui, in Vacche amiche, ricordi e riflessioni vincono sulla trama, anzi sono la trama del «romanzo», e la scrittura è in primo luogo morale. Etica, civile. Busi fa un lavoro di educazione del lettore – e infatti diffida di «chi è arrivato alla soglia del mezzo secolo» senza averlo «mai letto». Busi è un moralista che sembra aver intrapreso una personalissima, irreligiosa, anzi laica quant’altre mai e illuminista, strada di ascesi, pur continuando con intento programmatico a scrivere di sesso come un autentico libertino (per dire d’altro), e pur circondato da arredi belli e pregiati. Il fatto è che parla di sesso in modo esemplare, e politico, visto che non si è «limitato a fare discorsi sulla sessualità, come Michel Foucault e tutti gli altri teorici repressi», ma – scrive – «io ho parlato della mia» e la differenza è «rivoluzionaria». Soprattutto per averne parlato «con oggettiva sincerità», anzi «spudoratamente», come modello: «chi non parla della propria sessualità, non può parlare che a vanvera e in piena malafede di politica», mentre chi riesce a sputtanare se stesso favorendo «un autosputtanamento di massa» dà il suo contributo a «snidare e ammazzare il Leviatano della politica e delle religioni». E se si circonda, Busi, di arredi molto belli, questi tuttavia gli paiono in prestito perché «passano di mano come ogni corpo, quello che ti sembrava una proprietà diventa ciò che è, un transito». Difficile non pensare, sia pure eco involontaria, al materialismo altissimo di Lucrezio quando scriveva che la vita è stata data a ciascuno non in proprietà, ma in usufrutto, «omnibus usu».
L’ambizione finale, una volta dispiegati tono sprezzante, iattanza, vis polemica, affermazioni apodittiche e del pari accurate argomentazioni, è quella di tornare indietro e far ricominciare al mondo la sua evoluzione, poiché l’inurbamento è «collassato», ha deluso tutti, lo sappiano o no, e qualsiasi attrattiva cittadina è la quintessenza di un provincialismo camuffato ma profondo, compresi «il ristorante con stelle Michelin, la prima cinematografica con red carpet», l’escort, il rave. Oggi «tutto si guarda e niente si legge», siamo gravati da marchingegni che «disoccupano il cervello», i viaggiatori sono posseduti dalla «dromomania», di fronte a San Marco passano enormi navi «inchinantisi al dio Mammona del Mordi&Fuggi», e parliamo una lingua «che emette suoni senza senso e significati dislocati, e stupidissimi, scellerati anglicismi governativi a iosa, perché un neolatinorum sempre ci sta bene, il jobs act e la spending rewiew e il cocks in ass galore». Siamo in santissimo odore di laudatio temporis acti, e come non assentire? È stringente, persuasivo, massime dove dispone in catalogo – fascinosa soluzione retorica cui spesso ricorre – i gesti di una «pratica di sopravvivenza quotidiana» imparati fin dall’infanzia in campagna. L’oggettività e la concretezza non lasciano scampo, e dalla pagina affiora al contempo il profilo di Barbino, suo primo protagonista in assoluto, a saldare tutto – l’intera vita di scrittura – in una coerenza provocatoria.
A parlare, in Vacche amiche, è di nuovo un «io»: è lo Scrittore, che si mette in scena, che ha esistenza romanzesca – non lo si dimentichi – grazie all’Autore dello scrittore. Pur esibendo ricordi/episodi biografici numerosi, tra i quali spiccano gli «accidenti di percorso» delle tre amiche vacche, tutte a vario titolo traditrici d’amicizia, Busi ribadisce con chiarezza estrema un suo convincimento profondo: «non esiste autofiction negli scrittori veri, esiste solo l’autofiction dei non lettori. Mentre i lettori non lettori vogliono trovare in un libro o uno specchio alle loro paturnie o non vedono niente, lo scrittore vero non si immedesima nel suo “io” più di quanto non si immedesimerebbe in un lavello, che sia sporco o pulito. Uno scrittore vero non è mai autobiografico, nemmeno quando lo è». Con questa luce vanno illuminate tutte le scritture di Busi, dalla rivelazione che fu Seminario sulla gioventù (1984) fino a El especialista de Barcelona (2012), senza dimenticare, naturalmente, Vacche amiche. Uno degli aspetti di maggior interesse nella scrittura di Busi è, da sempre, proprio questo intreccio di registri, questa millimetrica sovrapposizione di figure e di esperienze, questo lavoro letterario. Si pensi a quel monumento alla «vita anonima» che è La signorina Gentilin dell’omonima cartoleria (2002), libro dedicato al secolo che fu, appunto, spaccato di provincia non paternalistico (quasi miracolo), acuminato nel cogliere solitudini, perversioni e ritrosie, tremendamente a fuoco nei suoi due assunti: l’anima non è l’interiorità ma solo «ciò che viene fuori», ciò che si perde via via, e «siamo tutti la stessa persona». A Busi non preme tanto fare scandalo quanto educare, utopia o meno, l’umanità. È questo lo scandalo vero: tutto è morale, nella sua scrittura. Sia indignazione, sprezzo e sberleffo, sia l’aver generato nient’altro che «fogli, l’unica cosa ben fatta della mia vita». E sembra di sentire, qui, la coscienza di quelle indimenticabili figure beckettiane – si vada a Malone muore e a Primo amore – il cui sperma «non ha mai fatto male a nessuno».