I risultati del referendum costituzionale in Burundi hanno rispettato le previsioni della vigilia: hanno vinto i «sì» con il 73%. Le modifiche consentiranno al presidente in carica Pierre Nkurunziza di ricandidarsi per altri due mandati della durata di sette anni a partire dal 2020 (potrebbe cioè restare in carica fino al 2034). Il «no» ha ottenuto il 19%, il 4,1% dei voti è stato annullato e il 3,2% si è astenuto). Affluenza, 96% degli oltre 5 milioni di aventi diritto.

La vigilia delle elezioni è stata caratterizzata da violenze ed intimidazioni secondo quando riportato da Human Rights Watch (Hrw) «almeno 15 persone contrarie al referendum sono state uccise, altre 6 sono state violentate e 8 rapite». Tuttavia, secondo Ida Sawyer, direttrice di Hrw in Africa centrale, «il livello degli abusi è probabilmente più alto, perché molte vittime e testimoni hanno paura di denunciare. Il voto è avvenuto tra abusi diffusi, paura e pressioni, un clima che chiaramente non ha favorito la libera scelta». Ma per il governo sono tutte bugie.

Agathon Rwasa, capo del blocco Amizero y’Aburundi e uno dei pochi leader dell’opposizione ancora nel paese ha dichiarato di non riconoscere il risultato, frutto di un processo elettorale che «non è stato né, libero né trasparente, né indipendente e ancor meno democratico». Rwasa ha anche denunciato che le forze governative avevano arrestato chi veniva percepito come oppositore prima del voto e minacciato di assassinare coloro che hanno votato contro le modifiche. Rwasa ha fatto sapere che ricorrerà alla Corte Costituzionale entro tre giorni. Il tribunale avrà poi altri otto giorni per ascoltare la petizione e prendere una decisione.

Anche il Dipartimento di Stato Usa ha denunciato «casi di molestie e repressione nei confronti degli oppositori dei referendum» pur riconoscendo che il governo ha permesso all’opposizione di svolgere ampiamente la sua campagna elettorale. La portavoce, del Dipartimento, Heather Nauert ha inoltre condannato la sospensione delle trasmissioni in Burundi da parte della Bbc e Voice of America, decisione che «insieme ad altre restrizioni sui media, arresti arbitrari e pene severe per i difensori dei diritti umani segnala crescenti limiti allo spazio civico e politico in Burundi». Non a caso il Burundi è al 159° posto su 180 paesi nell’indice sulla libertà di stampa World Press Freedom.

Willy Nyamitwe, portavoce del presidente Nkurunziza, ha invece elogiato la «pace» in cui si è svolto il referendum. Si passa così dai fatti ai punti di vista, all’osservazione storica e comparativa. Nel 1972 dal al 12 maggio furono uccise in Burundi circa 120.000 persone, nel 1993 un ulteriore conflitto portò alla morte di altri 300.000 burundesi. Quanta e quale sfiducia abbiano ingenerato queste violenze nelle attuali generazioni è possibile solo intuirlo: la convivenza forzata con il nemico che si ritiene capisca solo il convincimento della violenza, secondo la relazione di Hrw, significativamente intitolata «We Will Beat You to Correct You» (ti correggeremo a suon di botte).