L’intervista che segue è l’estratto di una lunga conversazione con Burt Reynolds realizzata per un libro su Robert Aldrich (Aldrich & Filmmakers, Torino 2006). Organizzata con la complicità di Walter Hill è avvenuta in un villino modernista arrampicato sulle colline di Beverly Hills, in cui Reynolds abitava prima di trasferirsi a Jupiter, in Florida, dove ha vissuto questi ultimi anni. Dopo la nostra conversazione, ho cercato invano di convincerlo a venire in Italia per presentare i suoi film da regista. Ma –mi disse- il viaggio era troppo complicato.

C’è una grande forza sovversiva nei film che hai realizzato con Aldrich, specialmente in «Quella sporca ultima meta».
Quel film è molto più coraggioso e duro del suo remake, che era certo più divertente. Noi non ci eravamo prefissi di far ridere. Il nostro film non era stato scritto come una commedia. La comicità scaturiva dai personaggi. Quando abbiamo iniziato la lavorazione, ricordo di aver detto a Bob: «Vuoi davvero che picchi la ragazza in quel modo? Non penso sia una buona idea. Al pubblico non piacerà». «Sei l’unico che può farlo» mi rispose. Ne fui lusingato, ma pensai: e se non fosse così? Poi Bob aggiunse: «Il film è tutto lì. Tu sei un maledetto bastardo e a cambiarti non è il reverendo Billy Graham, è un gruppo di galeotti. Se non maltratti quella ragazza sul serio non c’è più il film. Se non sei un vero figlio di puttana, uno che pensa solo a se stesso, un egoista totale, il film cade». Per quel film, Bob ha scelto un gruppo di ragazzi tosti, dei duri. Non tutti erano veri giocatori di football. Così gli ho detto: «Bob, questi non ce la faranno», e lui mi ha risposto: «Lo so, non c’è che da smascherare subito i finti duri». Il primo giorno di riprese sembrava di essere in una scena di M*A*S*H! – gente che veniva portata via di peso dopo una qualche azione – ma non ci siamo fermati un istante. Quando qualcuno si faceva male, Bob diceva semplicemente: «Spostate l’azione da questa parte del campo!», e noi continuavamo a giocare mentre il poveretto veniva portato via. Andava così – la stessa violenza, la stessa cattiveria – anche quando giocavo a football negli anni ’50. Ma un film era un’altra cosa, in un film ci si va con i guanti di velluto. Tranne che sul set di Bob, dove si faceva sul serio. Era dato per scontato che non avrei avuto una controfigura, che mi sarei preso tutte le botte del caso. Non una volta ho detto che mi ero fatto male – anche se in un paio di occasioni mi sono infortunato sul serio.

Eravate entrambi giocatori e appassionati di football. È per questo che vi siete trovati su questo progetto?
Quando mi è arrivata la sceneggiatura, quasi tutti i film sul football che avevo visto mi avevano deluso. Delle autentiche schifezze, così poco realistici, senza un vero atleta nel cast. Io invece volevo che il nostro film andasse giù pesante, e mi serviva un regista che avesse giocato a football, come Bob. Ricordo di averlo incontrato da Chasen’s. Entro e vado al bar. Era solo. In anticipo come sempre. Bob ti dava un appuntamento alla una, ma arrivava alle dodici e mezzo. Mi ha chiesto: «Ne vuoi uno?». «Cos’è?». «Martini. Qui sono famosi per il Martini». Un regista che chiede a un attore se vuole un Martini… molto strano. «Coach» ho detto, non l’ho chiamato Bob. «Non mi piace il Martini». E lui: «Faresti meglio a prenderne uno». «Ok, vada per il Martini». È stato l’inizio della nostra collaborazione e della nostra amicizia. Il Martini, per inciso, era eccezionale. Abbiamo parlato di molte altre cose, oltre al film. «Tu piaci alla gente» mi ha detto. «Grazie» gli ho risposto. E lui: «Ma a certa gente non piaci affatto». «Ah!». E poi: «Devi stare attento, perché sta per pioverti addosso un potere enorme, e questo ti cambierà la vita. Quindi, sii prudente». E io: «Sì signore». L’ho sempre chiamato «signore», ho sempre sentito per lui il rispetto che avevo per mio padre, come del resto tutti sul set.

Poi c’è stato il nostro secondo film, Un gioco estremamente pericoloso, che abbiamo prodotto insieme. Nei primi sei giorni di programmazione il film incassava una valanga di soldi. Finché ha cominciato a circolare la voce: Burt viene ucciso. A quel punto, non hanno venduto più un biglietto. Ricordo di aver incontrato «Duke» Wayne a una serata di beneficenza. Mi fa: «Tu non puoi essere ucciso. Noi non possiamo morire. Non possono uccidere te, e non possono uccidere me. È una cosa che il pubblico non vuole vedere. E va bene così». In effetti, i dirigenti della Paramount avevano fatto un sacco di difficoltà per quel finale. Ma Bob, appena vedeva uno di quei tizi in giacca e cravatta sul set, smetteva immediatamente di girare. Venivano a chiedere: «Non si può cambiare il finale?». Neanche a parlarne. Sarebbe stato come svendersi.

Ma voglio raccontare un altro episodio divertente. Io adoravo Bette Davis. Lei era alla fine della sua carriera, ma avevamo una relazione splendida, al punto che lei non andava a una festa se non ero io ad accompagnarla. Un giorno dovevo portarla a casa di Bob per un party. Alle sue feste di solito c’erano almeno 150 invitati. Bene, la chiamo e lei mi dice che è in ritardo. «Ci vediamo da Bob», e riattacca. Così ci vado da solo. A un certo punto sto parlando con Arthur Knight, che negli anni ’70 teneva una rubrica su «Playboy», quando si sparge la voce che è morta Joan Crawford. Sapevo che lei e Bette si odiavano. Bene, mi dico, la serata si fa interessante… In quel momento compare Bette. Viene dritta verso di me – stavo ancora parlando con Knight – e dice: «La stronza è morta». «Bette, non credo che tu conosca Arthur Knight. Tiene la rubrica Sex in Cinema su Playboy». E lei: «Comunque, è stata sempre puntuale». A Bob Bette piaceva molto, e così gli ho chiesto: «Tu che sei così bravo con gli uomini, dì un po’: com’è stato lavorare con queste due donne?». Mi ha risposto: «Nessuna differenza. Erano due uomini. E dei più duri».