In occasione di un loro incontro a Londra nel 1974, David Bowie disse a William Burroughs che la sua scrittura era «una casa delle meraviglie piena di forme e colori singolari, di gusti, sensazioni». È questa infatti l’impressione prevalente che deriva dall’epistolario appena uscito per Adelphi con il titolo Il mio passato è un fiume malvagio Lettere 1946-1973 (traduzione di Andrew Tanzi, sempre attento ad assecondare il cangiante ritmo della prosa, a cura di Oliver Harris e Bill Morgan, edizione italiana a cura di Ottavio Fatica, pp. 358, € 24,00).

La materia viva e lo stile di Burroughs sono già interamente lì. Bastano poche pagine per ritrovarne qualche segno distintivo, come la voce che riecheggia nella tetralogia della Nova e che mostra l’amalgama dissacrante di ironia e intelligenza di un autore capace di guardare in faccia il peggio e nel contempo strappare una risata per dirottare l’attenzione dalla catastrofe incombente.
Mentre le si legge, queste lettere sembra piuttosto di ascoltarle, proprio per la freschezza di una voce allusiva, sottile e composita, che agli amici racconta incessantemente di sé e dei luoghi circostanti in un profluvio continuo di immagini. E quando si rivolge agli avversari – letterari e politici – lo fa con irreprensibile franchezza.

Via dagli Stati Uniti
Durante il quarto di secolo passato lontano dagli Stati Uniti, Burroughs vive di lettere: vita, lettere e letteratura sono per lui una cosa sola, e ne è pienamente consapevole quando osserva che se vuole usare la frase di una lettera, quella poi si tira dietro l’intera pagina. Come Fitzgerald sventrava i suoi racconti per trasferirne interi capoversi nei romanzi, così Burroughs squaderna le lettere per trarne sezioni da destinare alla sua narrativa. La loro lettura evidenzia subito come esse siano centrali nella genesi dei libri di narrativa, in particolare di Pasto nudo, i cui primi episodi nascono dai lunghi monologhi – vere improvvisazioni, o numeri teatrali – che Burroughs manda a Ginsberg nel 1954. E l’epistolario «lisergico» sudamericano compare qui effettivamente sotto forma di lettere ma in Le lettere dello yage, pubblicato nel 1963, esce sotto forma narrativa. L’epistolario ruota dall’inizio alla fine intorno alla sofferenza di una psiche in procinto di disintegrarsi, periodicamente lacerata dall’impellenza della droga e braccata dalla molestia della carne. Ma ruota pure intorno alla disperazione, anche amorosa, come dimostrano le molte lettere a Allen Ginsberg, l’interlocutore principale, e si addentra nel profondo senso di solitudine dovuto all’esilio. Quanto Burroughs scrive nelle lettere illumina le ombre dei suoi libri: intorno alla metà degli anni Cinquanta, Tangeri era un porto franco, una città internazionale, una zona ibrida la cui società era frammentata, satura di tensioni culturali anche derivate dagli espatriati che vivevano lì: più che terra di nessuno era terra di tutti.

In Pasto Nudo, Interzona si allunga dal Messico a Tangeri, e nell’andirivieni dei personaggi comprende pure gli Stati Uniti, il Sudamerica e la Scandinavia, e diventa il luogo che incarna il dramma di Burroughs, che nella vita si è sempre mosso con il desiderio di esplorare gli estremi, «sulle tracce dell’incolore odore della morte». Lo si avverte non solo nei suoi libri, e queste lettere, dove si alternano l’esperienza dell’infimo e del sublime, ne sono una prova.

Se Junkie e Queer ricostruivano il passato di Burroughs, Pasto Nudo, il suo non-romanzo a frammenti «sulla perdita dell’innocenza», è nello stesso tempo il precipitato dell’esperienza consumata a Tangeri e la costruzione del suo metodo di lavoro: frammentazione e ricomposizione a formare un collage. Burroughs unisce sogno e realtà, fonde passato e futuro, attinge ai fatti e alla sua visionarietà, e lo fa trascrivendo, tagliando, selezionando soprattutto passi delle lettere, il frammentario materiale alla base della sua narrativa.

Il 1959 è una data cruciale: il suo libro più celebre, Pasto nudo, esce per la parigina Olympia Press di Maurice Girodias, e Burroughs scopre il cut-up – «ho un nuovo metodo di scrittura» –, la tecnica appresa da Brion Gysin che farà sua nei tre romanzi successivi, La macchina morbida, Il biglietto che esplose e Nova Express. Nei cut-up «parole e immagini non rappresentano la realtà ma la producono», osserva Ottavio Fatica nella sua empatica postfazione, e da quel momento il punto di riferimento principale diventa Gysin mentre un nuovo gruppo di amici sostituisce quelli della Beat Generation. Per qualche tempo Burroughs spera anche che Scientology, la filosofia di Ron Hubbard, gli sveli i misteri della mente, ma presto l’interesse svanisce.

Fermo restando il fatto che un epistolario si può leggere per frammenti, la scoperta di queste lettere sta nel constatare quanto raccontino in modo coerentemente narrativo del suo autore, rivelandone i drammi famigliari, in particolare quello con il figlio Billy. Ed è significativo che l’amore per Ginsberg risulti, di fatto, tutto epistolare: per sei anni non si vedono e si scrivono soltanto, e proprio grazie alle lettere sia il sentimento sia la collaborazione tra loro si rafforzano – in effetti Ginsberg è il suo primo lettore. Non a caso, nel 1954 Burroughs scrive: «Forse il vero romanzo sono le lettere a te». La lettura dell’epistolario è saporosa anche per i lapsus illuminanti – scrive Lichtenstein anziché Wittgenstein – oppure per le spiegazioni da maestrina, per esempio quando illustra a Ginsberg come «umano» sia un aggettivo, non un nome, o quando retrocede dai giudizi taglienti su Paul Bowles, o rimprovera Capote, e con lui un intero «periodico reazionario sotto copertura», per aver scritto «un insulso libro illeggibile, che avrebbe potuto scrivere qualsiasi redattore del “New Yorker”».

Spirito di contraddizione
A volte, leggendo, si ha la sensazione che non sia tanto il genere sessuale a stargli a cuore quanto l’essere umano in generale. Dopo la terapia con l’apomorfina che lo cura dalla tossicodipendenza si sorprende a guardare le donne: «Sai quei tizi che si scoprono checche a cinquant’anni suonati, forse io sto per fare il ribaltone». Inoltre, il suo spirito di contraddizione gli fa dire, dopo aver parlato più volte di Pasto nudo come di un romanzo, che «la forma del romanzo è del tutto inadeguata a esprimere ciò che devo dire» per arrivare poi al categorico, e a lettere maiuscole, «QUESTO NON È UN ROMANZO» bensì «un numero di brani autonomi con un tema comune». Anche nella letteratura non è il genere a preoccuparlo, bensì la specificità dello scritto che ha di volta in volta davanti. Solo verso la fine, dopo avere cominciato a dipingere, Burroughs riuscì a formulare in modo preciso il suo ambivalente rapporto con l’arte: «Con un quadro non sei cosciente… vedi attraverso le tue mani». Era stato Kerouac a suggerirgli il titolo del suo non-romanzo. Nell’introduzione Burroughs scrive: «Pasto NUDO – l’istante, raggelato, in cui si vede quello che c’è sulla punta della forchetta», alludendo alla consapevolezza vigile di quel che si ha di fronte in ogni momento. Il dolore che si diffonde dalle lettere, l’autore ormai ne ha preso coscienza, «è il dolore della totale consapevolezza».