Ospite del Festival de la Fiction Francais il prossimo 25 febbraio (presso l’Institut français, Centre Saint-Louis, largo Toniolo 20/22, Roma, ore 19.00), Scholastique Mukasonga approda in Italia per la prima volta con il suo terzo romanzo, Nostra Signora del Nilo (Gallimard 2012) già vincitore del Prix Renaudot e del Prix Ahmadou Kourouma, appena uscito nel nostro paese per la casa editrice 66thand2nd, in traduzione dal francese di Stefania Ricciardi.

A vent’anni dall’orribile massacro del popolo tutsi avvenuto in Ruanda tra il 6 aprile e il 19 luglio del 1994 – perpetrato dagli hutu in 100 giorni di follia sterminatrice durante i quali un milione di individui persero la vita e altrettanti furono messi in fuga – l’autrice ruandese parlerà del genocidio che colpì pesantemente anche la sua famiglia, uccidendone trentasette membri, ma anche di riconciliazione, di responsabilità e del futuro del suo paese, da cui riuscì a fuggire in giovane età riparando prima in Burundi e poi in Francia, dove vive dal 1992 e dove soprattutto scrive «per dar degna sepoltura ai morti e dignità ai vivi».

La vicenda si svolge negli anni Settanta in un liceo femminile a 2500 metri di altezza, nei pressi di una presunta sorgente del Nilo a cui le studentesse vanno in pellegrinaggio ogni anno a maggio, nel mese di Maria, per venerare la Nostra Signora del Nilo, vergine nera dai tratti troppo tutsi e per questo foriera di grandi sventure e odi separatisti.

Prescelte per rappresentare l’avanguardia del progresso femminile, figlie di ministri, militari d’alto rango, uomini d’affari e ricchi commercianti, le ragazze vanno fiere del loro valore come merce di scambio per matrimoni politici nei quali dovranno essere buone mogli e buone madri, ma anche buone cittadine e buone cristiane: «in dote, le famiglie non avranno solo mucche o boccali di birra tradizionali, ma anche valigie traboccanti di banconote, un cospicuo conto in banca alla Belgolaise di Nairobi o di Bruxelles. Grazie a loro, la famiglia si arricchirà, il clan consoliderà la sua potenza, la dinastia espanderà il suo dominio».

Ritratto vivido di un’Africa coloniale cristianizzata, le giovani studentesse rappresentano quella nuova élite femminile destinata a diventare un modello per tutte le donne del Ruanda della prima repubblica hutu e a giocare un ruolo importante nell’emancipazione del popolo ruandese. Il francese è l’unica lingua autorizzata, poiché, soprattutto in un liceo dedicato alla Vergine Maria, bisognava bandire ogni parola di swahili, la lingua deplorevole parlata dai seguaci di Maometto, ma anche i costumi devono essere rigorosamente quelli dei bianchi, ritenuti emblema di civiltà e unica via di accesso allo sviluppo democratico del paese.

Eppure, sotto una superficie di apparente candore e stretti codici morali, si annida lo spettro sovversivo della devianza e il retaggio separatista dell’antropologia razzista di stampo ottocentesco, che porteranno nefaste conseguenze nel microcosmo del liceo, anticipazione della devastazione nazionale che di lì a vent’anni avrebbe sconvolto l’intero paese.

Su questi stessi fatti, in maniera più direttamente autobiografica, si costruiscono le prime due opere della Mukasonga: La femme aux pieds nus (La donna dai piedi nudi, Gallimard 2012), dedicato alla madre dell’autrice stessa, e l’autobiografia Inyenzi ou les cafards (Inyenzi o gli scarafaggi – come venivano chiamati i tutsi, Gallimard 2006).