La migliore descrizione di Angela Merkel è proprio lei a fornirla: «Sono entrata in politica tardi, non immaginavo neppure che fosse possibile. Ero nella DDR, pensavo di restarvi fino alla pensione per poi finire i miei giorni nella Germania Ovest. La caduta del Muro è stata brutale. Io do tempo al tempo perché ho visto che nella lentezza c’è speranza». Senza moti passionali, senza slanci oratori, così come il cinema tedesco di questi sedici anni che si è mosso allo stesso ritmo, con ben poco di visionario. Finiti i grandi movimenti culturali un po’ per tutti, parevano qua e là accendersi dei focolai vivaci con alcuni autori provenienti dalla stessa scuola: la DFFB (Deutsche Film Fernsehenakademie Berlin).

Una nouvelle vague atipica della metà degli anni Novanta in cui ognuno seguiva una personale idea di cinema. Petzold, Arslan, Schanelec, Ade e accanto una corrente di aria più o meno fresca, il «German Mumblecore» dei fratelli Lass, Timo Jacobs e altri. Una narrazione frammentata e borbottante che coinvolge nella scrittura la scarsità dei mezzi di produzione, Love Steaks (2013) di Jakob Lass con un quasi esordiente Franz Rogowski è un esempio. Eppure, sotto il blazer pastello di una Mutti razionale e pragmatica (per molti una versione distopica e dispotica della madre almodovariana) non sono mancati dei buoni film.

Nel maggio 2020 il canale RBB trasmette alcuni cortometraggi realizzati da artisti reclusi in casa. Wenders, in soffuso bianco e nero, scrive un testo al computer e si chiede come saremo dopo la pandemia. Con alcune eccezioni l’autore si è dedicato al documentario e a progetti televisivi, il suo Pina (2013), un tributo alla coreografa Pina Bausch, resta uno dei suoi ultimi migliori lavori. Anche Herzog, dopo aver esplorato la natura selvaggia di orsi e Kinski, continua il suo documentaristico percorso tra dipinti rupestri (Cave of Forgotten Dreams, 2010), abissi umani (Into the Abyss, 2011), vulcani misteriosi (Dentro l’Inferno, 2016,) e il Novecento (Herzog incontra Gorbaciov, 2018).

Nel 2007 il mondo acclama Le vite degli altri di Florian Henckel von Donnersmarck in cui il compianto Ulrich Mühe è il capitano della Stasi Gerd Wiesler. Il film ha il respiro dell’epica, improvvisamente tutti sembrano scoprire il monitoraggio dell’Est e l’opera conquista l’Oscar come miglior film in lingua straniera. Dieci anni dopo con Vi presento Toni Erdmann di Maren Ade si ritenta la conquista del premio con una commedia grottesca, dinoccolata come il protagonista Peter Simonischek nelle vesti di un padre impegnato a far ridere la serissima figlia workaholic Sandra Hüller, una delle più interessanti attrici tedesche del momento fin dai tempi di Requiem (2006). Umorismo nordico… Se vi pare. Dietro le quinte dei festival i film tedeschi continuano per indole a riflettere sulla propria storia e sul cinema. La spinta verso l’introspezione è analiticamente feroce, l’emozione è surgelata ma (da qualche parte) presente.

Margarethe Von Trotta non si discosta dal vissuto collettivo neppure negli anni Duemila quando gira Rosenstrasse (2003) e soprattutto Hannah Arendt (2012). Memoria e Olocausto per l’autrice del Leone d’oro Anni di piombo (1981), un film sulla RAF più complesso e dolente del superfluo videoclip di Uli Edel La Banda Baader Meinhof (2008). Rüdiger Suchsland è un critico cinematografico e autore di due fondamentali documentari: Da Caligari a Hitler (2015), ovvero: il cinema espressionista tedesco ha previsto il nazismo? Una appassionata immersione, sulle orme del maestro Kracauer, dalla Repubblica di Weimar alla dittatura nazista. Da qui il regista riparte nel 2017 per Hitlers Hollywood, un altro viaggio cinefilo dal 1933 al 1945. Cosa può dirci il cinema che ancora non sappiamo?

Nel 2014 Felix Moeller con il suo documentario Verbotene Filme- Film proibiti si pone la stessa domanda davanti al destino di più di quaranta film prodotti nel Terzo Reich ancora oggi banditi. Il dibattito sul loro utilizzo apre controversie: che farsene?

L’assunto che ogni film, in ogni caso, sia un documento storico non trova tutti d’accordo. Dominik Graf e Johannes F. Sievert con Verfluchte Liebe deutscher film (Film tedesco maledetto amore) (2016) passano in rassegna con autori, storici e critici, i dimenticati film tedeschi di genere degli anni Settanta e Ottanta lontani dal riconoscersi in qualche filone del Dopoguerra così come nei confini del Nuovo cinema tedesco.

Nel frattempo, Berlino è presa d’assalto da chi legge articoli su una presunta «creatività a costi bassi». Ma i tempi sono cambiati, la gentrificazione è una mannaia, gli affitti raddoppiano, piccole e medie aziende preferiscono il «minijob» spacciandolo per piena occupazione, il clubbing salva le anime perse, un solido welfare resiste. In questo universo vive la giovane spagnola Victoria nell’omonimo film del 2015 di Sebastian Schipper girato interamente in piano- sequenza; c’è una ragazza che balla da sola, una rapina e una storia d’amore. Un film tachicardico che meglio rende l’atmosfera cittadina assieme al thriller Berlin Syndrome (Cate Shortland, 2017) su controllo e desiderio. L’identità, l’incontro-scontro tra culture sono nodi nevralgici come sa bene il regista Fatih Akin, figlio di emigrati turchi (La sposa turca, Ai confini del paradiso, Oltre la notte) e Visar Morina nato a Pristina e arrivato in Germania a quindici anni: il suo Exil (2020) affonda senza glamour le unghie nel tema. La questione era già divenuta seria nel 2015 quando la Merkel accolse un milione di rifugiati siriani. Il forte malumore, soprattutto nella Germania orientale, spinse in avanti i partiti di destra come Afd e movimenti come Pegida. Su quest’ultimo fenomeno si sofferma la documentarista Sabine Michel con Merkel must go- Montags in Dresden (2017).

L’estremismo arriva a sganciarsi dal contesto restando spirito del tempo in Wintermärchen- Germany, a winter’s tale (Jan Bonny, 2019) su degli aspiranti e sfigati terroristi. La DDR è una presenza fantasmatica anche quando è reale (La scelta di Barbara Christian Petzold, 2012) o un macigno difficile da spostare (Un valzer tra gli scaffali, Thomas Stuber, 2018 e Herbert del 2015, entrambi con un magnifico Peter Kurth).

Il richiamo all’ Heimat, riduttivamente tradotto come «casa», assume tratti lontani dalla dolceamara poesia della saga di Edgar Reitz: si declina nella periferia violenta di una gang femminile in Prinzessin (Birgit Grosskopf, 2006), nel rap di ex aree industriali in We almost lost Bochum (Julian Brimmers, Benjamin Westermann, 2020), nei ricordi familiari in 80.000 Schnitzel (2020) di Hannah Schweier. Pare che la Merkel sia una bravissima imitatrice, soprattutto di Putin e Ratzinger. Perché dopo la politica non lanciarsi nel cinema?