Nella vaporosa vestaglia, allungata sul grande letto, Silvana Pampanini è sorpresa in una telefonata d’addio sempre interrotta dal regista che la vorrebbe più intensa, più drammatica, più cattiva. Sul set di Viva il cinema! (1953) l’attrice, che ha compiuto ieri novant’anni, impersona se stessa come l’incarnazione più glamour del cinema italiano dei primi cinquanta. È lei che dopo il lungo periodo affamato della guerra apre la strada all’esplosione delle maggiorate. I grandi occhi chiari, le labbra tumide, la pelle bianchissima, i capelli corvini, il seno prorompente, le lunghe gambe, la voce da soprano, sembra avviata alla carriera di cantante come la celebre zia Rosetta. Ma la sua insegnante del Conservatorio manda una foto al primo concorso di Miss Italia del ’46. Se la giuria le preferisce un’altra, il pubblico tifa per lei e le fa superare la delusione portandola in trionfo come la vincitrice morale. Silvana ha ventun’ anni, ha avuto un’educazione severa, quando il cinema s’interessa a lei sarà suo padre a farle da agente. Comincia a impersonare canzonettiste, soubrette, ballerine, che mettono sotto i riflettori il suo corpo statuario. Interpreta moltissimi film dal 1950 al 1955, la sua stagione d’oro, in cui si scatena il ciclone Pampanini prima che s’imponga Gina Lollobrigida, mentre Sofia Lazzaro non è ancora Sophia Loren. Sono commedie divertenti che sfruttano le sue doti fisiche sempre esibite in un malizioso vedi-non-vedi. Confesserà più volte di non essersi mai mostrata nuda per una naturale ritrosia, ma di aver indossato e lanciato il pagliaccetto, l’emblema di Ninì Pampan come la chiamano con simpatia i francesi. Scandalosamente perbene, si intitola la sua autobiografia, spiritosa rievocazione degli incontri con i vip dell’epoca. Nella sessantina di film a cui partecipa è accanto a Totò, Peppino De Filippo, Ugo Tognazzi, Nino Taranto, Tino Scotti, Renato Rascel, Walter Chiari, Alberto Sordi, Marcello Mastroianni, Amedeo Nazzari, Massimo Girotti, Paolo Stoppa, Folco Lulli, e a molti altri anche stranieri come Jean Gabin, Jean-Paul Aumont, Pierre Brasseur, Pedro Armendariz e perfino Buster Keaton.

Se nei Pompieri di Viggiù (1949) è l’aspirante soubrette che nello spettacolo indossa un pudico bikini a pois, in 47 morto che parla dell’anno dopo è la canzonettista Marion Bonbon naturalmente in pagliaccetto nero. Come spirito-guida, coperta da un peplo velato con le spalle nude, cerca di adescare il barone Totò che abbocca: «Tu sei fatta d’aria pura» e, annusandola: «Prendo una boccata d’aria». Lei provocante: «Non valgo forse io un tesoro?». Totò le dà una lunga sguardata: «Sì, sì, dammelo te lo amministro io!». Sono gli stessi titoli dei film che evocano immagini accattivanti per il pubblico maschile attratto dal «proibito»: La peccatrice dell’isola, Schiava del peccato, Bellezze in bicicletta, La donna che inventò l’amore, Una bruna indiavolata. Meno farsa e più commedia, La bella di Roma (1955), conferma la vitale energia del suo temperamento di attrice e di donna.

Sempre pronta a mostrare, sul set e fuori del set, la sua indistruttibile vivacità, come quando non più giovanissima alzando la gonna si dà degli schiaffi sulle cosce per mostrare quanto siano sodi i suoi muscoli. Ma il cinema italiano che finora l’ha sfruttata come sex symbol fa in tempo a scoprirne le insospettate qualità drammatiche in almeno tre film di culto. «Ogni giorno mi sveglio con la stessa speranza: lo troverò oggi un marito che fa per me? Non penso che a questo», sospira Anna, affacciandosi alla finestra della sua camera da letto che domina Napoli in Un marito per Anna Zaccheo (1953) di un Giuseppe De Santis più che mai dalla parte delle donne e pronto a cogliere gli umori della sceneggiata napoletana. Anna si sottrae alle intenzioni della famiglia che vorrebbe sistemarla con un ricco anziano per cercare lavoro in un’agenzia pubblicitaria. Il proprietario Amedeo Nazzari, impeccabile in città, un signore per bene quasi un padre, in trasferta non esita a saltarle addosso e a violentarla. Il ritorno a casa è burrascoso perché la famiglia con tutto il quartiere è sconvolta dal manifesto delle calze in cui lei mostra una gamba nuda. Dopo un tentativo di suicidio, ritrova Massimo Girotti, il marinaio di cui è innamorata che, bontà sua, con un lungo bacio si dice pronto a dimenticare tutto. Ma quando passa la notte con lui, paradossalmente, il giovane non ne vuol più sapere. Non può sposarla proprio perché è stata a letto con lui. Avrebbe dovuto rifiutarsi. Il film finisce come era cominciato con Anna alla finestra, confermando la storica impossibilità di cambiare i rapporti uomo-donna.

Non meno congeniale l’incontro di Silvana con il melodramma famigliare di Raffaello Matarazzo. Il senso forte dell’emozione e il brivido della cattiveria maschile non gli impediscono mai, nemmeno in Vortice (1953), di cogliere con lucidità il rapporto tra corpo e denaro che è fin dall’inizio in primo piano, mentre offre all’attrice una delle sue migliori occasioni di interprete. Per salvare il padre dal grosso debito che ha con la banca, Elena è costretta a sposarne il direttore. Sembra incredibile, ma rinuncia al fidanzato Massimo Girotti per l’equivoco Gianni Santuccio che la «compera» per la sua avvenenza. Quando un incidente costringe il marito sulla sedia a rotelle, la cupa claustrofobia dell’interno borghese esplode in tutta la sua ferocia: «Io ti ho sposata perché ti desideravo, tanto. Ma adesso vista da vicino sei come tutte le altre, anzi forse sei peggiore delle altre. Però sei mia moglie e porti il mio nome e io voglio che tu rimanga qui, legata a me, e più questo legame ti fa soffrire e più io sono contento». Avvelenato dall’amante, il cattivo esce di scena. Ma lo strazio di Elena continua perché, incolpata del delitto, finisce in prigione. Il colpo d’ala del film arriva con la scena finale. Quando riabbraccia la figlia che era stata affidata alle suore, sconvolta, teme che le venga tolta per sempre. Si rifugia all’ultimo piano dell’edificio e minaccia di buttarsi giù con la bambina in braccio. L’intera vita di doveri, di sacrifici, di abnegazione sta per andare in pezzi. Le suore e i poliziotti tentano di fermarla.

Solo l’arrivo di Massimo Girotti che la discolpa scongiura il salto nel vuoto. L’ossessione Pampanini è al centro di Noi cannibali (1953) di Antonio Leonviola, dove la bramosia sessuale per il corpo della donna arriva al parossismo. Sin dall’inizio lo spogliarello di Virginia nello squallido spettacolo di rivista, seguito dalla chiassosa partecipazione del pubblico, crea un clima di torrido voyeurismo che segnerà l’intero film. Lasciata la compagnia, ritrova il suo vecchio amico Vincenzo Musolino e va a vivere con lui in una delle catapecchie sorte lungo la ferrovia di Civitavecchia, incredibile corte dei miracoli da brutti, sporchi e cattivi. Anche qui viene accolta dagli stessi epiteti volgari che le venivano rivolti sul palcoscenico. Non le è possibile uscire dalla prigione del suo corpo concupito dagli avidi sguardi maschili. Quando nella borgata si festeggia la nascita di un bambino improvvisando un ballo tra le rotaie, incuriosita si avvicina e accetta ingenuamente l’invito di fare un giro. Ma il ballo degenera subito in forme sempre più sguaiate. Gli uomini la abbrancano, se la scambiano tra di loro, la travolgono. La festa si trasforma in uno stupro collettivo, un rito pagano in cui i maschi famelici sembrano decisi a sbranare il corpo della donna.