Da qualche giorno in Italia gira una di quelle che vengono etichettate superband, in cui gli elementi di altri gruppi si uniscono attorno a un unico progetto lampo, della durata di un disco o una tournée. Nel caso di Buñuel però siamo al secondo lp, con il suo frontman, Eugene S. Robinson dei losangelini Oxbow, Pierpaolo Capovilla e Franz Valente (Teatro degli Orrori e One Dimensional Man) e Xabier Iriondo (Afterhours e Todo Modo). Una decina di date affilate (stasera l’ultima all’Eremo Club di Molfetta) per presentare The Easy Way Out (La Tempesta International) in cui a condurre la cerimonia c’è proprio Eugene Robinson, un gigante che sembra arrivare dall’oltretomba con le suggestioni timbriche di una voce tormentata, irregolare e ossessiva, a compattare pubblico e palco in una performance teatrale/musicale. Anche questo disco è stato praticamente creato a distanza, con Eugene che vive a San Francisco, ma non sembra un problema: «La musica, la sua espressione, vive già negli spazi che solitamente riesco a trovare dentro me, in cosa penso e come mi sento. Ci sono anche stimoli esterni? Sì. Ma la realtà è che senza un registro interiore la musica è solo suono. Quindi ha poco a che fare come o cosa facciamo, anche meno il suo aspetto live. Quando suoniamo in un luogo definito per me è come svegliarmi da un sogno. È come se tutto esistesse già nel sogno prima del live. Mi sono preparato per questo tour senza ascoltare altra musica per circa due mesi, ma è come se l’avessi respirata e vissuta prima ancora di scrivere ogni parola».

The Easy Way Out è un disco fisico, Eugene ha un passato da pugile, si è esibito in MMA (arti marziali miste) ed è uno scrittore, oltre che un musicista. Gli domando come e se questi elementi si sono condensati nell’ultimo album, per esempio nei testi che risultano criptici: «The Easy Way Out rappresenta la ricerca di qualcosa, quindi descriverlo come “fisico” mi pare strano. Quello che voglio dire è che molti di noi non pensano che respirare e camminare sia fisico, ma immagino che tu intenda il senso di avere un forte impatto. Ok, ci sta, ma credo che il vero impatto della musica arrivi sempre a livello di subconscio, cioè che si radichi più di quanto noi immaginiamo in un lato meno accessibile, quindi meno fisico. Ho trascorso 8 anni ossessionato dal Brazilian Jiu Jitsu, sei giorni alla settima, ogni settimana, con alcuni World Championship vinti. Tutto queste cose sono per forza connesse tra di loro».

L’album è intriso di tanti generi, il post rock, il noise, l’industrial, l’hardcore, che sembrano sciogliersi in altre forme, anzi pare che ogni genere riconoscibile nelle 11 tracce, venga sbriciolato come fosse un buio presagio della fine (per esempio in Dial Tone cantata da Capovilla). Si attraversano tanti punti di oscurità ma in fondo resta un rock brutale, rumoroso e urlato, non disposto ad aprirsi a nuove forme ma concentrato nell’intento di distorcere e distruggere le vecchie. Eugene vive quest’album come un’esperienza quasi catartica che poco centra con l’idea di successo: «Credo di aver pianto quando ho ascoltato il master finale (ride, ndr). Sai, è differente dalla spinta di creare qualcosa di successo, potresti avere successo facendo qualcosa di unico per te, ma difficilmente capita. Precisamente è per le nostre esperienze che siamo stati capaci di creare musica significativa. Non è importante se questo disco piaccia, l’importante è che a noi, suonarlo, faccia sentire bene».

Eugene che ha già fatto tournée in Italia con gli Oxbow, mi fa notare le differenze abissali con il lavoro del musicista negli Usa, tanto che qui sembra soprattutto divertirsi: «Gli Oxbow esistono in quella maniera complicata e americana di fare ogni cosa con un’attitudine in modo sempre crescente e diversa, che si differenzi continuamente… Si traduce nell’esibirsi in tanti show quanti ne puoi fare, finché non ti distruggi fisicamente. La paranoia non solo ci fa caricare le nostre attrezzature negli hotel in cui dormiamo, ma anche guidare 12 ore di seguito per coprire tante tappe nel più breve tempo possibile, dormendo solo 4 ore a notte. I tour di Oxbow non sono decisamente uno svago». Il mondo di Eugene è la complessità di un uomo in cui corpo e suono finiscono per materializzarsi, che stima i suoi compagni di avventura e il modo di affrontare una tournée in Italia: «Con Buñuel il tour è come immagino debba essere, certo abbiamo suonato solo in Italia e questo rende le cose facili. Una volta per esempio ho viaggiato in Russia con i Brazilians per degli eventi di lotta e ho notato come le situazioni che da americano mi avrebbero fatto impazzire, tipo i repentini cambiamenti di piano, venivano facilmente gestite dai brasiliani. Questa attitudine la vedo anche qui. È magnifico che ci sia poco stress, ovviamente è anche grazie a Franz, Xabi e Pierpaolo che sono persone fantastiche. Ecco perché quando le band italiane mi dicono che vorrebbero fare tour in America, consiglio loro di salvarsi dalla miseria che troverebbero».

Termino l’intervista domandandogli se si è mai immaginato una tournee negli Usa con Buñuel, ma non sembra troppo convinto: «Fare un tour in America ti distrugge lo spirito, devi essere attento a non cadere nella trappola di volerla attraversare tutta in una volta… New York, Boston, Philadelphia, poi DC, Maryland e Virginia, hai bisogno di interruzioni altrimenti diventi pazzo. Ora mi trovo in un bel contesto, con compagni eccellenti e sto cercando di convincere Ago (il tecnico del suono Augusto Mascariello, ndr) a viaggiare con gli Oxbow per i nostri prossimi show». E sfodera la risata più mostruosa che abbia mai sentito.