Dell’aristocratico – di lignaggio e di penna – sfavillante narratore russo Ivan Bunin il mercato librario italiano non conserva, deprecabilmente, quasi nulla: due dei più suggestivi racconti, scritti nella fase centrale della sua produzione, vengono ora pubblicati in edizione digitale da Adelphi in Fratelli («Microgrammi», nuova traduzione di Claudia Zonghetti pp. 52,€ 1,99). Siamo negli anni della grande guerra, la produzione di Bunin ruota attorno alla novella capolavoro Il signore di San Francisco e, uscendo dall’ambientazione russa, mantiene fisso con statuario tragismo l’orientamento sulle grandi questioni dell’anima. Al successo di inizio secolo Bunin era arrivato con i romanzi brevi sullo sfascio del leggendario latifondo ottocentesco: Il villaggio (l’unico suo testo reperibile in italiano) e Valsecca, pervasi di austero naturalismo e caustica malinconia. Dopo l’emigrazione nell’iconica casa provenzale di Grasse seguirà quella lunghissima stagione creativa le cui vette sono nella saga autobiografica La vita di Arsen’ev e in un poliedrico, consuntivo gioiello, la raccolta di racconti, tutti sull’amore, Viali oscuri.

Contiguità superflue
Il sigillo della fama postuma ha sinora eluso Bunin a causa di una discrasia spazio-temporale d’insanabilità quasi cosmica: privato di pubblico e di radici ma russo in ogni corda, si ritrova sospeso tra i grandi classici, che ha superato, e il modernismo a lui contiguo, che tuttavia gli resterà per sempre estraneo. A complicare il quadro, un fulgore stilistico fatto di densità e leggerezza, che di norma vacilla nella resa della traduzione, ma non qui. Così, uno scrittore di primaria grandezza, fuor di dubbio della statura dei classici, è sempre stato letto non in sé, ma solo per confronti e scostamenti. La massima vicinanza a Tolstoj, specchiata da una sintassi di amplissimo respiro e cristallina eleganza. Un nitore, un equilibrio e una calibratura degli strumenti narrativi che anticipa in tutto Nabokov. Senza, magari, tutta la poesia del primo e l’irresistibile tarlo ludico del secondo.

Fin dal titolo l’accostamento dei due racconti dell’e-book, comunque coevi, si mostra opportuno e incisivo: non ci sono fratelli nel racconto Fratelli, fatta salva l’epigrafe tratta dal Sutta-nipata, che ne denuncia il reciproco sterminio, a introdurre il ruolo fondante della spiritualità buddhista, ma soprattutto a sottendere l’intero testo come apologo dell’atroce guerra che dilaniava l’Europa, alla quale mai più si accenna; non c’è nessun figlio nel secondo racconto, Il figlio, solo un tormentoso coacervo di pulsioni tra una donna matura e un diciannovenne, nel quale il senso d’insoddisfazione per due figlie femmine è uno dei tanti risvolti putativi dell’autoinganno.

E già si percepisce l’evocatività possente del non detto, una delle qualità più alte di Bunin, alle cui pagine si torna sempre con la lingua amara. C’è poi la specularità dell’ambientazione coloniale, pur se diversissima – la Ceylon britannica per Fratelli e i muri bianchi di Costantina per Il figlio – e c’è la linea portante del parossismo d’amore – in ogni declinazione eterno tema buniniano – che si espande, come l’umidità nell’aria dei tropici, a una dimensione metafisica. E, se vogliamo, anche la strategia di false attese e velate anticipazioni è la stessa in entrambi i racconti, e lascia in dubbio fino all’ultimo se l’amore porti a uccidere o a uccidersi.

Ceylon è la palestra ideale perché Bunin sfoggi tutti i colori e le spire prensili e vitali della sua prosa – dei quali la traduzione di Zonghetti rende magnificamente merito, significando tramite una mimesi che approssima la fonopittura, l’infinito e destabilizzante variare della luce, la corposità carnale della vegetazione che annichilisce l’idea stessa di spazio, il nero dei corpi e il nero del buio intersecati in una tavolozza sterminata di sfumature e mutazioni. Non a caso di Bunin Gor’kij diceva che dipinge con la penna.

Fratelli, di per sé strutturato in una prima parte di bruciante dinamismo e in una seconda di lunga e apparentemente distante riflessione, è percorso per intero da una rete di conflitti e va letto come contrapposizione di blocchi concettuali: la rapace cultura senza divino dell’individualismo occidentale e l’autoreferenziale spiritualità buddista; la speranza inalienabile nella felicità da parte degli ultimi della terra – che è in realtà uno dei luoghi focali della cultura russa – e il distacco dalle passioni, in primis da quella d’amore; l’androgina scintillante nudità imperlata di sudore e bave rosse di betel dei locali e la pinguedine algida e assente dei corpi dei dominatori.

In sprezzo, come sempre, di ogni risposta univoca, Bunin, nella scia dell’ultimo Tolstoj, ma senza il di lui messianesimo, è sensibile al fascino pervasivo del buddhismo, che appunto risposte non dà, ma almeno garantisce una percezione a noi non più accessibile dei sensi e del pensiero. Il racconto è spesso inteso come denuncia della violenza e della disumanità del giogo coloniale, e in parte lo è, ma al netto di ogni didascalismo, ai dogmi comunicativi di oggi appariranno razzisti i continui accenni alla primordialità animalesca dei cingalesi, funzionali invece al dissesto profondo dell’ontologia testuale. È anche il suo sguardo da cane a squadernare la centralità dell’epopea dell’uomo del risciò e a mettere sul suo stesso piano – potenzialmente fratelli? – l’anima del muto, cinico passeggero inglese, che rivelandosi all’improvviso mostrerà un inatteso travaglio e sensi di colpa in realtà immotivati nei confronti del primo.

Più breve, Il figlio è all’apparenza maggiormente asciutto, meno spumeggiante per sintassi, a rifrazione della natura arida dell’Algeria francese, della minore emergenza, tra protagonisti tutti occidentali, della sperequazione percettiva; ma anche qui, nel torrido meriggio filtrato da persiane invariabilmente chiuse, le anime della signora Marot e del giovane Emile, stralunato e strampalato poeta, cortocircuitano in un continuo spostarsi e collassare di piani, sprigionano energia, senza poter mai immaginare di toccarsi, attonite davanti a una sconcertante, incontrollabile forza distruttiva: «Dio mio, questa cosa non ha nome!».

Tre puntini, un adulterio
Pari però, per malia, all’amour fou è l’inafferrabile presenza autoriale, che esce e entra a piacimento dalla focalizzazione dei personaggi, ne conosce il karma ma gli nasconde il loro stesso volere o si limita al sentito dire, e soprattutto muove la trama con procedimenti di puro virtuosismo: un adulterio consumato in tre puntini di sospensione, l’uomo del risciò seduto per strada che legge il proprio destino negli occhi dell’inglese sul balcone, eccitati al vedere una nave entrare in porto, l’inquietante finale con due abissi – di sopra e di sotto – in mezzo al mare, nel fragore di tenebre degli stessi colori del serpente di venti pagine prima, tenuti sospesi l’uno sull’altro come il cielo di stuoie sventolato dai servi malesi sopra i bianchi in convivio.

A testimonianza della natura in qualche modo in fieri di un e-book – e questo andrà a comporre una più ampia edizione della prosa di Bunin – la minore cura redazionale spesa nel secondo racconto non inficia la magistrale versione di Zonghetti, lasciando tuttavia a nudo spigoli, ripetizioni e soprattutto il clamoroso fraintendimento di una frase cruciale: «‘Va bene, poi sarà il mio turno’ le dissi, senza dubitare un attimo della sua decisione», mentre la decisione è invece, fuor di dubbio, «mia».