In un saggio del 2007 emblematicamente intitolato All’inseguimento della propria ombra, lo scrittore e critico Zinovij Zinik si soffermava su quell’inquietudine esistenziale che nel 1975 lo aveva catapultato al di là della cortina di ferro, per la precisione in Israele. Nella prospettiva di Zinik, l’opzione volontaria dell’esilio aveva troncato in due la sua vita, trasformando il passato moscovita in una sorta di romanzo non scritto, eppure pronto per essere narrato. Non a caso, l’autore aveva provato a ridefinire fin dagli anni ottanta l’evento lacerante dell’emigrazione nei termini di un espediente letterario che, al pari dello straniamento teorizzato da Viktor Sklovskij, instaura automaticamente quella distanza tra sé e il proprio io di un tempo necessaria per trasformare quest’ultimo in personaggio. È improbabile che gli scrittori russi approdati in occidente all’indomani della Rivoluzione d’Ottobre avessero colto e analizzato le potenzialità finzionali dell’emigrazione con la stessa freddezza postmoderna di Zinik. Eppure, leggendo il libro su Anton Cechov che Ivan Bunin aveva tentato invano di completare prima di morire a Parigi nel 1953, è impossibile sottrarsi all’impressione che l’autore in fin di vita avesse voluto includere se stesso e il suo collega all’interno di una cornice narrativa certo sfocata, eppure consapevolmente imperniata sui temi del distacco e della nostalgia.
Al di là delle lacune del non finito, la trama frammentaria di A proposito di Cechov, uscito postumo a New York nel 1955 e ora riproposto da Adelphi nella accurata traduzione di Claudia Zonghetti (pp. 223, euro 14,00), permette di comprendere «quale Cechov» l’emigrato Bunin avesse voluto consegnare alla posterità, costruendosi riga dopo riga un alter ego nutrito, ancor più che di ricordi personali, di suggestioni letterarie altrettanto vivide.
Ma come mai l’anziano scrittore si era volto negli ultimi anni della sua vita a inseguire l’ombra dell’amico scomparso? Claire Hauchard, traduttrice in francese sia di Bunin che di Cechov, nota giustamente nella prefazione che l’impulso decisivo gli venne nel 1952 dalla lettura dell’epistolario cechoviano, da poco pubblicato in Unione sovietica e, innanzitutto, dalla scoperta dell’affetto con cui l’autore del Giardino dei ciliegi lo ricordava nelle sue missive a conoscenti e familiari. Eppure, per l’emigrato filomonarchico, malato e ormai ridotto in miseria, altrettanto impellente doveva essere stato il bisogno di smentire quel fantomatico messaggio cripto-rivoluzionario dell’opera cechoviana che la critica sovietica andava enfatizzando tendenziosamente. «Cechov filobolscevico, che assurdità!» aveva sbottato Bunin già nel 1947 in una lettera indirizzata all’amico Mark Aldanov, dopo aver scorso gli articoli di Vladimir Ermilov, gratificato nel 1950 del premio Stalin proprio per una monografia su Cechov. A quelle argomentazioni lo scrittore ribatteva affermando che, se non fosse morto prematuramente di tubercolosi, Cechov sarebbe certamente emigrato e avrebbe «frequentato insieme a noi i ristoranti parigini, mentre a Mosca gli Ermilov di turno sulla base di altre citazioni gli avrebbero dato del bandito filozarista. O, forse, si sarebbero limitati a non leggerlo».
Fu dunque la consapevolezza delle distorsioni e delle forzature elaborate in Unione sovietica dai critici di partito a far condensare, intorno al ricordo di tante passeggiate e conversazioni nella luce accecante della Crimea, il progetto di un libro che restituisse Cechov alla verità storica. Un testo, quello di Bunin, adattato all’orizzonte ideologico e esistenziale dell’emigrazione «bianca» e curiosamente destinato a uscire grazie a Aldanov per la Chekhov Publishing House, quella stessa casa editrice émigré fondata nel 1951 a New York nel quadro della lotta propagandistica anticomunista e antisovietica finanziata dal governo americano. Nell’introduzione Claire Hauchard tace questi risvolti legati alle logiche della guerra fredda, finendo così per far apparire come ideologicamente neutrali scelte che, all’epoca, non lo erano affatto. D’altro canto, se la duplice distanza spaziale e temporale aveva consentito a Bunin di inserire il collega in qualità di personaggio all’interno della propria narrazione sull’epoca precedente i giorni «maledetti» della Rivoluzione, va detto che l’ombra di Cechov evocata in queste pagine finisce talvolta per dissolversi, sovrastata com’è dalla voce dell’io scrivente. Superfluo è infatti l’invito di Hauchard a «scoprire dietro il ritratto il ritrattista», a tal punto evidente è la tendenza di Bunin ad alzarsi in punta di piedi e a far capolino da dietro le spalle di Cechov con commenti a volte ridondanti, se non francamente sgradevoli – ad esempio, là dove a una confidenza epistolare di Cechov sulla facilità con cui aveva scritto il Cacciatore in uno stabilimento balneare in mezza giornata fa seguire una osservazione che non può non suonare invidiosa: «A onor del vero, a me Il cacciatore non piace, lo trovo fiacco».
Se il sopraggiungere della morte impedì forse a Bunin di smussare taluni giudizi eccessivamente polemici o maldestri, d’altronde l’accostamento di lunghi stralci di citazioni da altri autori a note a margine personali era una tecnica ben collaudata che lo scrittore cui era stato dato il Nobel nel 1933 aveva già messo a punto nella Liberazione di Tolstoj. In modo analogo, la trama intertestuale si compone qui non solo della corrispondenza già menzionata, ma anche e soprattutto di quella polifonia dissonante «a proposito di Cechov» che comprendeva voci come quelle del filosofo Lev Sestov e della poetessa Zinaida Gippius, nonché quel semi-dimenticato critico émigré, M. Kardjumov, che nel suo studio datato 1934 Un cuore in subbuglio tentò caparbiamente di istituire un nesso tra Cechov e la cosiddetta «anima slava». Non mancano neppure le osservazioni della moglie di Bunin, Vera, a cui lo scrittore costretto a letto dettò molti frammenti del libro. Incaricata di ricostruire il testo rimasto incompiuto, Vera Bunina smette di tanto in tanto i panni della vedova redattrice per rivelare gli autentici travasi di bile che la lettura dei critici sovietici riservava al consorte malato e che si traducevano immediatamente in epiteti irripetibili e sequele di punti esclamativi sui margini. Un posto di riguardo Bunin lo assegna invece alle memorie di Lidija Avilova, madre di famiglia non sprovvista di ambizioni letterarie che verso il 1890 si innamorò perdutamente di Cechov, tanto da rievocare la storia del suo amore impossibile in un memoir pubblicato nel 1953 (Cechov nella mia vita) che raccoglie tutti i più triti e innocui cliché sull’argomento e che pure dovette suscitare indignazione nei morigerati ambienti letterari sovietici, se il curatore Kotov tenne a precisare nell’introduzione che lo scrittore ricercava la compagnia dell’Avilova per discutere con lei «di argomenti spinosi come la disuguaglianza dei ruoli all’interno della famiglia».
Testo inevitabilmente irrisolto, A proposito di Cechov riserva le sue pagine migliori là dove Bunin si affida al suo estro narrativo, ritraendo Cechov assorto a contemplare il mare «così vuoto» di Jalta, oppure persuaso di poter sfuggire alla propria «malinconia congenita» con un semplice giro notturno in carrozza. Inquadrature sfocate che il regista Bunin punteggia di dialoghi rarefatti, in ossequio a quella riservatezza che lo aveva tanto colpito in Cechov e che gli piaceva pensare «figlia di uno spirito aristocratico, e del desiderio indomito di usare sempre le parole giuste».