Leggere Bukowski – e lo stesso succede con Burroughs – è come essere distesi su un mucchio di letame a guardare le stelle: si fa simultaneamente l’esperienza dell’infimo e del sublime. L’impressione si conferma nel leggere Bukowski su Bukowski, e cioè le interviste raccolte da David Stephen Calonne in Il sole bacia i belli (traduzione di Simona Viciani, Feltrinelli, pp. 327, euro 18.00), uscite tra il 1963 e il 1993. Anche quando parla di sé senza la mediazione del suo personaggio più ricorrente, Henry Chinaski, con la sua ironia irriverentemente critica e caustica, Bukowski non risparmia nessuno e tantomeno se stesso. Niente è sacro e niente è tabù, e il timbro unico della sua voce risuona beffardo dalla prima all’ultima pagina di questo volume che Feltrinelli manda in libreria per ricordare lo scrittore statunitense a vent’anni dalla morte.

Le viscere non sono mai esibite: si vedono e basta. D’altronde le sue origini tedesche lo radicano nella tradizione più straziante del paese che gli ha dato i natali, e non stupisce che uno dei film preferiti dell’autore di Post Office e Barfly fosse Eraserhead, il capolavoro espressionista di David Lynch. Alla tradizione romantico-espressionista dei poeti folli lo accomuna il desiderio di esplorare i luoghi oscuri perché, ci ricorda Calonne, «facevano parte del suo pellegrinaggio periglioso verso il trascendentale».

Ciò che colpisce leggendo queste testimonianze in prima persona è l’onestà intellettuale. Il candore, per esempio, con cui ammette di aver smesso di scrivere a ventiquattro anni perché non si sentiva ancora pronto. Riprenderà a farlo solo dieci anni e decine di lavori umili dopo, tra cui il duro apprendistato della vita in fabbrica – quando tornava a casa «con la fabbrica attaccata alle ossa» – e i turni di notte all’ufficio postale perché mai avrebbe potuto affrontare un impiego dalle nove alle cinque, il «ritmo della lumaca» segnato da compleanno, Natale, ultimo dell’anno. Quando riprenderà a scrivere lo farà in perenne compagnia di quel «suicidio temporaneo» che era per lui il bere, dove gli era permesso ritornare alla vita e ricominciare la mattina seguente, e dopo lunghe giornate passate all’ippodromo, dove era capace di perdere alle corse i soldi faticosamente guadagnati.

La sincerità e l’integrità morale di Bukowski sono il frutto di questa doppia dipendenza, pagata fino in fondo. Nel raccontare le tappe di una vita tanto tormentata, dalle cinghiate inflittegli dal padre più volte alla settimana durante l’infanzia all’emorragia in seguito a un’ulcera che quasi gli costò la vita, si sente l’intima mitezza di quest’uomo dalla voce dolce e dalle mani delicate, in contrasto con il viso devastato da una forma virulenta di acne adolescenziale e le braccia da scaricatore di porto che gli tornavano utili nelle risse cui da giovane si abbandonava spesso.
Di rado riecheggia un piccolo grido di autocommiserazione, sempre però unito a una ferma autocritica se qualche intervistatore glielo fa notare in un verso o in un racconto: «Sì, in quel caso non sono stato il massimo».

Il massimo, afferma, lo raggiunge quando riesce a stendere un verso semplice come una corda di bucato, alla quale appendere le emozioni – una risata, un dramma, l’autobus che passa con il rosso, una bambina che si riveste in silenzio dopo essere stata violentata. Un verso ripulito da ogni orpello retorico, in cui risalta l’abilità di dire una cosa profonda in modo semplice. Bukowski parla con un’innocenza che a volte lascia intravedere come sarebbe stato il giovane Holden se lo avessimo visto crescere, prova lo stesso disgusto per la poesia pigra e falsa, che gioca con parole fasulle – il sole, la luna, le stelle, «le solite stronzate».

Alcuni intervistatori lo mettono con le spalle al muro. Così nella sua intervista del 1975 Marc Chénetier riesce a strappargli un giudizio severo nei confronti della Beat Generation – «facevano troppo gli amiconi fra loro» –, un sodalizio di cui avverte la falsità di fondo. E rivendica il proprio orgoglioso e tribolato percorso solitario: «Mentre i beat beattavano, io bevevo». Quando Chénetier gli domanda se sia Chinaski a fornirgli la distanza necessaria per andare oltre ciò che gli è accaduto veramente, ammette con schiettezza di non essere in grado di rispondere alla domanda: «Sono terribilmente confuso, sai». L’inconsapevolezza di come usa i suoi strumenti di lavoro affiora più volte e spesso ripete di non conoscere il significato di quel che scrive, di non sapere come versi e racconti gli escano. Forse, aggiunge, se in un romanzo ci fosse il suo nome vero risulterebbe troppo autocelebrativo.
Con altrettanta modestia ammette quello che gli ripetono le sue donne, e cioè che scrive roba dura ma dentro è una meringa, e ride imbarazzato, non compiaciuto. Con altri si lascia andare di più, come con Sean Penn, che nel 1987 lo intervistò per «Time». Precisa che la sua comicità è piuttosto una propensione al grottesco, e insiste sull’importanza dell’ozio per lunghi periodi, per non correre il rischio di perdere ogni cosa, sia che si scriva, si faccia l’attore o la casalinga. L’ozio è l’unico antidoto alla follia, alla frustrazione e alla rabbia. Ed è con Sean Penn che parla della fede: «È positiva per chi ce l’ha. Ma non sbolognatemela. Ho più fiducia in un idraulico che in un essere supremo. Gli idraulici fanno un buon lavoro. Non ci fanno intasare dalla merda».

Prende deciso le distanze dalla pornografia: se l’oscenità è vista con grande liberalità – lasciate che tutti siano osceni quanto vogliono perché questo è il solo modo per estinguere l’oscenità e non creare, come direbbe Burroughs, «l’algebra del bisogno» –, il giudizio estetico sulla pornografia è implacabile. Sottolinea la noia debordante di «tutta quella carne che va in giro per lo schermo», la mancanza di immaginazione di un’industria che non è capace di eccitare, anche perché chi gira i film porno, se sapesse come fare sarebbe un artista, non un pornografo. Con Ron Blunden, infine, ammette che scrive poiché non può farne a meno, è l’unico modo per salvare se stesso, e con una battuta in cui vorrebbe solo ribadire di essere semplice e non profondo, ci dà l’essenza della sua scrittura: «Il mio genio è confinato nell’interesse per le battone, per gli operai… per la gente sola, sconfitta, abbattuta».

Nelle ultime interviste ricorda chi ha esercitato un’influenza su di lui: il primo Saroyan, Hemingway, Sherwood Anderson, John Fante, Céline, e, per la poesia, Robinson Jeffers. E torna con la mente ai momenti brutti della vita, quando gli bastava una stanzetta con un armadio vecchio, un letto, una tenda stazzonata e una porta da chiudere dietro di sé per ricaricarsi con «il tono non disturbato del mio io». Chiudere la porta della sua stanza, o sedersi in un bar giorno e notte, è stato il modo di Hank Bukowski di dire no alla massa, il luogo di raccolta dei più deboli. E il modo di trovare il coraggio per non arrendersi, perché nel buio degli inferi balugina sempre la luce.

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