«Che ci vuole a tirarsela un po’/basta dire che Sanremo fa cagare/ci vuole poco a diventare famosi/basta un vaffanculo in tv» No, non è un instant song di Bugo post caos sanremese ma una strofa, quasi un’epifania, contenuta nel suo ultimo splendido disco di inediti, il decimo, dal «semplice« titolo Christian Bugatti. Semplice per modo di dire, visto l’estrema delicatezza del mettersi a nudo, del dare nome e cognome a un’identità che, da oltre, vent’anni, è una delle più sfuggenti e camaleontiche del panorama italiano. A distanza di cinque anni dal leggermente incolore Nessuna scala da salire, il cantautore milanese sembra tornato alla freschezza compositiva di Contatti – l’album delle hit come C’è crisi e Nel giro giusto – capace di fondere lofi, cantautorato ed elettronica in una mistura pop intelligente e scanzonata.

CON LA SUA TIPICA voce quasi afona e il suo gusto surreale per la parola, Bugo confeziona 9 perfette canzoni dalle sonorità che abbracciano idealmente nostalgie brit pop al Battisti post Anima latina. Il risultato sono brani come l’opening Quando impazzirò o Un alieno che sembra addirittura il punto di congiunzione fra i testi ermetico-surreali di Panella e le ariose chitarre di classici battistiani come Questione di cellule. Alle soglie dei cinquant’anni, Bugo sembra però concentrarsi nei suoi testi in una riflessione sul tempo fuggito. A partire dal duetto con Ermal Meta nella bellissima Mi manca (Sprofondare nell’erba più alta, tornare a casa sporco di prato/Ah invece siamo già grandi, con il dovere di dare risposte, firmare e non lanciare sassi) – dove la voce «bambina» di Ermal sembra rispondere alla nostalgia dell’adulto Bugo. Fino alla poesia umbratile di Al paese (Quando guardavi l’autostrada dicevi me ne voglio andare dal paese/ Ma adesso dimmi cos’hai trovato di più; molti cinesi e un panorama di gru). Anche Sincero, l’ormai celeberrimo duetto con Morgan, non è altro che un dialogo temporale fra i sogni di gloria giovanili (e i cliché della rockstar maledetta) e il presente normale fatto di piccole cose.

QUELLE PICCOLE poesie del quotidiano quasi mogoliane, tornando sempre a Battisti, che impreziosiscono melodie struggenti come l’epica chiusura di Stupido eh? dove, in 6 incalzanti minuti, dipinge con dolcezza disarmante il bisogno «di sapere dov’è che ho messo le mie scarpe rosa per il calcio/lo vedi ho bisogno di te/Ma tu hai bisogno di me?».