Quattro giorni dopo il sanguinoso attacco nel cuore occidentale di Ouagadougou, le facciate annerite dello Splendid hotel così come le macchine carbonizzate nella zona perimetrale tutt’attorno – a cui per ragioni di sicurezza è vietato l’accesso – sono i resti eloquenti dell’omaggio dei jihadisti del Sahel a quella staffetta di operazioni militari lanciate dalla Francia sotto lo scudo della minaccia al-qaedista e tutte culminate, dall’agosto 2014, nell’attuale operazione Barkhane.

Mentre un’inchiesta è ancora agli inizi e fonti della sicurezza (sostenute dalle testimonianze di alcuni sopravvissuti) lamentano il modus operandi delle forze burkinabé, le prime ad essere arrivate sul posto prima dell’intervento delle forze speciali francesi (di stanza a Ouagadougou e in Mali) e di quelle americane. Sotto accusa c’è il mancato coordinamento dei soldati e delle informazioni e soprattutto la carenza e l’inadeguatezza dell’equipaggiamento di base. Il processo chiama in causa (in direttissima) il comandante delle forze anti-terrorismo burkinabé Evrard Somda (giunto con 20 uomini) e dunque lo stesso ministro della difesa alias il neo-presidente Roch Marc Christian Kabore. «C’è stato un grosso problema di coordinamento» sostiene una fonte della sicurezza su Jeuneafrique. «Non sapevamo chi doveva fare cosa, non vi era alcuna comunicazione tra le diverse unità. Il ministro dell’Interno in persona si è dovuto recare sulla scena per coordinare le azioni». Polemiche che riportano in auge il problema della riforma dell’esercito burkinabé soprattutto dopo la caduta di Compaore (nel 2014). Intanto domenica i primi ministri di Burkina e Mali – rispettivamente Paul Kaba Thieba e Modibo Keita – hanno annunciato piani per il rafforzamento delle operazioni di cooperazione militare e condivisione dell’intelligence nella lotta congiunta contro il terrorismo.

Ma ciò che risulta più roboante all’indomani del primo attacco jihadista a Ouagadougou è ancora una volta (come in Mali 2 mesi fa) l’orgoglio françafricain tragicamente ferito da una caccia senza quartiere «all’uomo bianco» durante gli attacchi coordinati sferrati nell’isola europea di avenue Kwame Nkrumah, una delle arterie principali della capitale: l’hotel Splendid e dall’altro lato della carreggiata il bar all’italiana Il Cappuccino, ritrovo abituale di diplomatici in sede e di passaggio e dei militari francesi delle forze speciali della missione Barkhané di stanza appunto ad Ouagadougou. Tra le vitttime – circa 30 – di diverse nazionalità, anche un bambino italiano di 9 anni, Michel Santomenna, la madre Victoria Yankovska, franco-ucraina – figlio e moglie di Gaeano Santomenna, il proprietario del Cappuccino. Una giovane vittima che ha scatenato le consuete reazioni di condanna e cordoglio dei leader occidentali, dall’Eliseo, alla Casa Bianca, ai nostri Gentiloni, Mattarella e Renzi. Dichiarazioni cariche di un pathos di circostanza, e come tali inossidate perché nulla tolgono (né tanto meno vogliono incrinare) alle solite politiche di asservimento alle logiche degli interessi economici e finanziari e i “buoni rapporti” con gli alleati di turno.

Insieme a Gao (Mali) e a N’Djamena (Ciad), Ouagadougou è uno dei centri nevralgici nella lotta al coacervo di gruppi terroristi nel Sahel lanciata con l’operazione francese Barkhane. In quelle savane diventate crocevia di traffici illeciti e sequestri di persona. Come quello a cavallo dell’attacco a Ouagadougou in cui due medici australiani sono stati rapiti al confine con il Mali. Attacco prevedibile quello a Ouagadougou e che ne annuncia altri. Speculare a quello di Bamako, solo più sofisticato. Esplosivi all’entrata per rallentare i soccorsi e una maggiore spavalderia, quella con cui i jihadisti hanno registrato un messaggio audio dall’interno dello stesso hotel assediato: «Combatteremo la Francia fino all’ultima goccia di sangue».