Due uomini nella notte al fuoco di un bivacco. Randolph Scott si materializza da un buio muro di pioggia e parla di una rapina a Silver Springs in cui è rimasta uccisa una donna. «Gli assassini li hanno presi?» chiede un cowboy un po’ in ansia. «Due di loro sì» risponde Randolph Scott e li uccide entrambi. Improvviso, teso, perfetto è l’arracco di Seven Men From Now. Il film, scomparso da 30 anni, riappare magnificamente da Ucla al New York Film Festival e in una bella retrospettiva che il Museum of Moving Image di Queens dedica al grandissimo regista-torero. Prodotto dalla Batjak di John Wayne, Seven Men From Now (’56) fu il primo western che Boetticher realizzò con Randolph Scott: Decision at Sundown, The Tall T (del ’57), Westbound e Buchanan Rides Again (’58), Ride Lonesome (’59) e Comanche Station (’60). Tranne Decision at Sundown e Westbound furono prodotti dalla Runown di Harry John Brown e di Scott per la Columbia di Cohn. Insieme Bullfigher and the Lady (’51, prodotto da Wayne) magnidico stralcio autobiografico in bianco e nero, con Robert Stack che diventa torero in Messico per amore, questi western sono considerati l vertice della carriera di Boetticher, interrottasi alla fine degli anni ’60 dopo 7 anni in Messico trascorsa a girare un documentario sul matador Arruza, la cui lavorazione fu piagata da mille incidenti (Boetticher ne parla nel libro When in Disgrace). Combattivo 84enne, carico di storie nonostante un doppio trapianto del femore, Boetticher è a New York a presentare i film. Lo incontriamo in una suite del Mayflower Hotel, con la moglie Mary con la quale alleva preziosi stalloni portghesi in un ranch a est di San Diego, con arena per tori come quella di Arruza.

Perché “Sette assassini” è il suo western preferito?

E’ il migliore di quelli fatti con Randolph Scott. E’ un film che amo e l’ho appena rivisto dopo 40 anni. Mi piaccioni anche la Valle dei Mohicani, I tre banditi e l’albero della vendetta. Ma in Sette assassini Lee Marvin, che fino ad allora non era nessuno, è spettacolare. Inoltre abbiamo fatto cose mai viste in un western. Per esempio il cattivo era attraente. Se alla fine fosse stato Lee Marvin a uccidere Randolph Scott gli spettatori non si sarebbero dispiaciuti.

 

Sono attraenti i suoi cattivi…

Il loro problema è solo che si trovano dalla parte sbagliata dei binari. Ma sono tipi di bell’aspetto, hanno «vissuto», sono piacevoli, vivono d’espedienti. Una giovane. Una giovane donna come lei probabilmente si sarebbe innamorata del cattivo e non di Randolph Scott.

 

Perché il film è rimasto invisibile per tanti anni?

Michael Wayne, il figlio di John Wayne aveva l’impressione che io e il padre fossimo nemici mortali. E a volte lo eravamo davvero. Litigavamo continuamente. Spesso lui aveva torto e spoesso avevo torto io. E, quando non ero d’accordo con lui, facevo ben attenzione a farglielo sapere – cosa non comune, perché nessuno era in disaccordo con John Wayne. «Duke» ha prodotto i miei due migliori film, ma nel primo Bullfighter and the Lady ha tagliato 42’. Come si può essere così stupidi? Non è stato un grande film finché non lo abbiamo rimontato esattamente come lo volevo: The Bullfughter and the Lady era la mia vita, come si permetteva John Wayne di tagliarne un terzo? Ma allora ero solo Oscar Boetticher Jr. 17 film all’attivo e per di più non buoni. Ero giovane, praticamente un nessuno e osavo dire no a John Wayne! Così si è seccato e ha tgliato.

 

Non hai mai usato John Wayne come attore. Perché?

Non avrebbe voluto mai che lo dirigessi e non mi sarei mai sognato di volerlo. John Wayne interpretava John Wayne meglio di chiunque.Ma politicamente e in altre cose c’erano molte cose in cui eravamo diversi. Ma amo molto John Wayne perché mi ha aiutato a raccogliere i soldi per fare quei due film. Negli ultimi mesi mi è stato chiesto molte volte come cambierei la mia vita. Facole: sarei stato più gentile con Wayne. Ma non per questo sarei stato d’accordo con lui.

 

E la scelta di Randolph Scott?

E’ stato Duke a volerlo. Quando gli abbiamo chiesto chi voleva ha detto: «Usiamo Randoph Scott, tutto è finito». Credeva non fosse bravo. Invece si è rivelato un attore migliore di lui e in più ci ha permesso di creare nuove star. Abbiamo lanciato Lee Marvin, Richard Boone, Parnell Roberts, Richard Stevens, James Coburn. Un giorno sul set di L’albero della vendetta, Randolph mi ha chiesto chi fosse quel tipo magro con le mutande rosse. James Coburn, gli risposi. E lui: «E’ bravo, scriviamogli qualche scena in più». Grazie a quelle scene John Sturges lo ha scritturato per I magnifici sette. Randolph era molto generoso, non come Wayne. Certo poteva permetterselo visto che era multimilionario per via del petrolio. In quei film avevamo veramente un grande team: Randolph, Burt Kennedy, Harry Joe Brown…

 

Dopo «I sette assassini» tutti i western sono prodotti dalla Ranown, la società di Scott e Brown. Era così più indipendente dallo Studio?

Nessuno mi permetteva o non mi permetteva di fare niente. Non avevo bisogno di permessi e alla Columbia sapevano che sarebbe stato un errore seccarmi. Non è ego, è la verità: non puoi lasciare che un mucchio di persone che non sanno cosa vogliono ti dicano cosa devi fare. E’ vero, non molti registi allora avevano la stessa libertà. Ma io ero un torero: ldilà del toro non c’è granché che mi faccia paura. Devi essere molto forte per fare così. Io lo ero, lo sono e lo sarò sempre.

 

Che rapporto ebbe con Harry Cohn il boss della Columbia?

Ottimo, era unv vero amico. E a lui non piaceva nessuno. La gente era terrorizzata alla sola idea di entrare nell’ufficio di Harry Cohn. Sembrava Mussolini ed era person peggio di lui. Ma tra me e lui andava così: «Budd è bellissimo, vai avanti». Non mi avrebbe mai detto che doveva parlare con altre dieci persone prima di darmi una risposta. Era più potente di Warner e degli altri tycoon. Ma nei miei confronti è sempre stato molto leale.

 

Come lavorava con Burt Kennedy il suo sceneggitore?

Burt è stato il mio migliore amico per 44 anni. Era un autore di western molto brillante, forse il migliore. Quando ero in Messico a girare Arruza e ci sono rimasto per sette anni Burt mi ha chiamato, gli avevano chiesto di diventare regista. «Basta che dirigi i tuoi script e non cambi una parola» gli ho risposto. Quando lavoravamo a un progetto burt scriveva una bellissima sceneggiatura. Poi, scelto il cast che corrispondesse ai personaggi della storia, si riscriveva la sceneggiatura per adattarla agli attori che avevamo scelto. Per esmepio in Bullfighter and the Lady non ci sarebbe mai stata una scena di tiro al bersaglio se Robert Stack non fosse stato un campione. Se un attore è un grande sciatore, lo fai sciare. E se nel film c’è un cowboy e l’attore non sa cavalcare lo circondi dei migliori cowboy del mondo e gli accendono la sigaretta, gli offrono di sedersi e ascoltano rapiti tutto quello che dice. Così dai dignità al personaggio: Scott Brady e John Lund in Bronco Buster non potevano cavalcare e così ho scritturato 5 campioni di rodeo che interpretavano se stessi e hanno fatto sembrare migliori anche gli altri…

 

Nei suoi western c’è il tragitto dell’eroe che ha perso la moglie, verso la vendetta. Cosa l’affascina del tema?

Esattamente quel che manca nel cinema di oggi, che ha perso la capacità di fare dei film sulle persone. Chi se ne frega di un edificio che salta in aria e di una nave che afonda? Ti importa dei personaggi: se ti piace il protagonista, se ti fa paura, se ridi quando ridi e piangi quando muore…allora il film ti prende.

 

Lei è nato in Illinois. Cosa l’affascinava del West?

Sono nato a Chicago, ma ci sono praticamente stato cinque giorni. Io mi ritengo dell’Indiana. I western sono stati la prima cosa che mi hanno dato da fare quando ho iniziato a fare cinema. Non sapevo nulla del West. Quando hai dei cubani che vengono qui a giocare a baseball e ne sanno più degli americani è perché hanno dovuto studiarlo. Stessa cosa con me. Avevo deciso che non sarei mai stato nelle condizioni di di chiedere a qualcuno che mi stava vicino cosa dovevo fare. E’ per quello che sono diventato una specie di autorità sul West. Ne ho studiato a fondo la storia, ho cercato i dettagli. In Sette assassini si vede – novitàassoluta – un pistolero far pratica. La mia idea era che se uno faceva il cowboy, proprio come doveva allenarsi a tenere il cavallo con una mano e usare l’altra per pisciare, se voleva essere il migliorecon la pistol doveva pur esercitarsi!

 

Un altro personaggio importantisimo tra i suoi collaboratori è Lucien Ballard…

Se un regista e un operatore non sono innamorati uno dell’altro non si ottiene un buon film. Ballard era come Kennedy, uno dei miei migliori amici e il migliore operatore del mondo. Ecco perché ho sempre lavorato con lui. Ed era bellissimo, uno degli uomini più attraenti che abbia mai visto, oltre che un gran donnaiolo. Ogni volta finiva con la ragazza più carina del posto. Quando guravamo, in genere ero io a scegliere l’inquadratura. Ma eravamo così vicini che se chiedevo: «Perché non usiamo un obiettivo 35mm per tener in campo quei tre personaggi?» e lui mi diceva che stavamo perdendo luce e suggeriva invece di stringere e illuminare artificialmente la scena, gli credevo. La nostra era una meravigliosa collaborazione. Ho sempre pensato alla fotografia come a una cosa fondamentale perché i film arrivino come degli oggetti d’arte. Quando nel dopoguerra lavoravo a Washington per il presidente Truman, alla fine della giornata andavo al museo a vedere gli impressionisti. Credo che mi abbiano influenzato parecchio…Renoir, Toulouse-Lautrec, Gauguin. Certe volte non so da chi ho rubato, ma so che l’ispirazione viene da loro. E la gente crede che io possa parlare solo di tori, corse di cavalli e football…Invece gli impressionisti francesi sono la mia passione. Mi piaceva come dipingevano, ma anche come vivevano, come facevano le cose. Erano degli spiantati, Toulouse-Lautrec pagava da mangiare per tutti. Erano affascinanti e folli.

 

Nella composizione delle immagini anche la scelta del set è originale. Tra l’altro lei non ha mai girato a Monument Valley.

I western con Scott sono tutti ambientati a Long Pine in California. Chilometri e chilometri di roccia vulcanica che è emersa nel corso degli anni a forza di terremoti e tempeste dando origine a forme bellissime. In più i paesaggi sono così belli perché, prima di girare ero stato a cavallo per settimane a battere la zona. Ne conoscevo ogni saso, ruscello, laghetto. In apertura di L’albero della vendetta volevo vedere Randolph Scott piccolissimo, a cavallo, che da lontano si avvicinava progressivamente. Lucien Ballard aveva scelto il posto dall’aeroplano e io l’avevo già esplorato a cavallo. Quando ci siamo andati per discutere le riprese ho preso il viewfinder e scelto dove mettere la macchina da presa: «Lucien, domattina la macchina da presa è qui, con un obiettivo da 35mm». A quel punto Lucien ha camminato una ventina di passi, fino a dove c’era un chiodo piantato nel terreno e mi ha detto: «Io e Walsh abbiamo girato qui un’inquadratura quindici anni fa. Vuoi un’inquadratura di Walsh o di Boetticher?». E io «La mia naturalmente». Ma era sostanzialmente la stessa. Le cose non cambiano mai…Ma Monument Valley…era la casa di John Ford e io non avevo nessuna intenzione di copiare le sue inquadrature. Che fosse lui a copiare le mie.

 

Tra i registi western ama Anthony Mann e Howard Hawks

Sì loro due e Ford erano grandi registi e grandi persone. Perché attenzione io non vado al cinema per guardare quel che fanno gli altri. Io faccio le mie cose: sono un torero e per ogni torero non esiste un altro torero al mondo. Allo stesso modo mi ritengo il miglior regista sulla piazza.

 

Quanti giorni di riprese e che budget avevano i suoi western?

Tra i cinque e i settecentomila dollari, roba da ridere oggi. I giorni di lavorazione erano 18. La durata media di ognuno dei western era di un’ora e 17 minuti. Perché Erano film che avevano un inizio, una metà e una fine. Adesso sono noiosi, non finiscono più. Persino un grandissimo regista come George Stevens quando ha fatto The Giant si è trovato in mano un film di più di quattro ore e ha impiegato sei mesi per tagliarne due. Quando io finivo un film con Scott, lo guardavo in tre o quattro giorni e poi partivo per l’Europa. Seil film era di 77 minuti, probabilmente ne avevo girati 80. Un po’ di gente che entrava e usciva dalle porte si poteva sempre eliminare all’ultimo momento. Invece oggi…Prendiamo Balla coi lupi: se vedevo un altro indiano mi veniva da vomitare.

 

Riconosce nei western di Eastwood alcune affinità tematiche? Il cavaliere venuto dal lontano, il senso del passato, la vendetta…

Clint Eastwood mi piace molto, è una persona straordinaria. Nei suoi western ci sono temi che appaiono nei miei, ma niente altro. Quando Clint Eastwood cammina, e dico cammina, per mettere la dinamite in Two Mules for Sister Sara (Gli avvoltoi hanno fame di Don Siegel) ero seduto al cinema vicino a lui e gli ho detto: «figlio di puttana, non piazzi della dinamite camminando. Corri, l’afferri, la getti il più lontano possible e poi te la dai a gambe. Ma tu cammini perché tanto sei la star e sai che non puoi morire…» Come dicevo Eastwood è una grande persona, ma quello è un film orribie, orribile. Non resta una parola di quello che avevo scritto nella sceneggiatura. IL PROtagonista nel mio film era un vagabondo, mezzo delinquente. Non si era rasato da settimane, beveva troppo: dopo che aveva perso la moglie ed era diventato uno sbandato. Fino a che non incontra Sister Sara e vuole andare a letto con lei. Solo che lei è una suora. Era una storia d’amore, la storia di due persone separate da Dio. E nella mia sceneggiatura non si scopriva fino all’ultimo minuto che Sara non era una suora. «Non sapevi che ti volevo fin dal primo momento?» le diceva lui alla fine. E lei: «Non sapevi che ti volevo altrettanto anch’io?». Non era una commedia! Ma un giorno troverò qualcuno che lo drige come lo volevo io. Tra l’altro nella mia versione, Sara non era una prostituta, ma una cortigiana che era andata a letto con entrambi i capi della rivoluzione che stava per scoppiare.

 

Perché non lo ha diretto?

Ero in Messico a fare Arruza. Stessa cosa per Ride the High Country, il primo film di Sam Peckinpah. Ero io che dovevo dirigerlo, ma mi sono rifiutato di tornare.

 

Cosa pensava di Peckinpah?

Mi piaceva il suo lavoro ma trovavo detestabile l’uomo. Il Mucchio selvaggio è un grande film ma poi ne ha fatto uno che parlava di donne di cui non sapeva niente, quello con Stella Stevens…Il suo problema? Non era una bella persona. Hanno scritto che ha rubato tutto da me. Non è vero. Ma lui lo ha letto e, da allora, mi ha odiato. Una volta che ci siamo visti mi ha detto: «Budd, tu e tutti gli altri dite che faccio film violenti perché mi piace la violenza. Invece io li faccio per mostrare al mondo quanto è orribile». «Cazzate Sam» gli ho risposto. E’ l’ultima cosa che ci siamo detti. I suoi erano film bellissimi, ma quando giro uno che muore non mi va di vedere il suo naso che vola in aria.

 

«Il cavaliere solitario» è quasi una commedia…

Sì, è un western insolito. E ha uno dei miei finali migliori che, come altri, ci siamo inventati sul set. Spesso nei miei western si sente «ahuuuuuuu!». «Coyotes?» dice qualcuno. «No, indiani che seppelliscono i nemici». Perché nei western nessuno tiene conto del fatto che, quando c’è uno scontro, ci sono dei morti che presto cominceranno a puzzare. E tu cosa fai? una scena d’amore con dei cadaveri in decomposizione? Io ho sempre qualcuno che li toglie di mezzo.

Così alla fine del Cavaliere solitario ho dato l’ultima battuta allo sceriffo che sta vicino ai due fratelli morti sul ponte: «Datevi da fare, prendete un badile!» Non se l’aspettava nessuno»! Come in I tre banditi, dopo che sono successe quelle cose orrende, dopo che ci sono stati morti da tutte le parti Randy dice a Maureen O’SULLivan: «Vieni, sarà una bella giornata» E’ così impensabile! Quando io e Burt giravamo insieme, giravamo il suo script, ma durante le riprese improvvisavamo continuamente.

 

Dopo «Arruza» è tornato in America ma non ha più diretto un lungometraggio..

Quando sono tornato e ho incontrato mia moglie, mi mandavano dei copioni e io promettevo di realizzarli se mia moglie fosse riuscita ad arrivare fino in fondo. Non ce l’ha mai fatta. I film non li fai per soldi. Io e Mary nei 30 anni passati insieme abbiamo attraversato periodi in cui eravamo senza il becco di un quattrino. Tutto perché io non volevo dirigere schifezze. Così a un certo punto hanno smesso di chiamarmi. E ho deciso che l’unica cosa da fare era scrivere le mie sceneggiature. Basta con la regia. Abbiamo una vita troppo bella… Tanto, visto che i diritti sono miei non permetterò a nessuno che non sia bravo di dirigerle. E ovviamente uno non è bravo se non è d’accordo con me. Adesso mia moglie ed io abbiamo pronte quattro sceneggiature tra cui il vero TWo Mules e tre libri. Una sceneggiatura è tratta dall’autobiografia When in Disgrace 293 pagine, tre volte più di Via col vento. Non la dirigerò io ma forse Curtis Hanson. Sarà lui a tagliare quello che non gli sembra necessario. E’ la storia dei miei sette anni in Messico: 7 giorni e 7 notti nella prigione più dura del mondo, un periodo in manicomio in totale stato di incoscienza da non sapere dove fossi…Successe quando cercavano di rapirmi per riportarmi a casa a dirigere Comancheros. Mi sono svegliato con una barba lunga di cinque giorni e i buchi delle siringhe di narcitico in una gamba. Tutti sono stati uccisi e sono morti, persino Arruza…Ci saranno tre grandi protagoniste donne e, alla fine, la donna della mia vita, Mary. E’ una grande storia. Curtis Hanson farebbe un ottimo lavoro.

(da Alias 14 ottobre 2000)