«Il governo italiano, lo dico anche ai nostri amici a Bruxelles, è al lavoro con determinazione forse non colta da qualcuno ma per noi molto chiara». La conferenza stampa di Paolo Gentiloni, al termine del Consiglio dei ministri, è un capolavoro di diplomazia ai confini dell’equilibrismo. È anche il riflesso delle difficoltà di un esecutivo costretto a navigare tra le pressioni di Bruxelles e quelle di Matteo Renzi.

Il messaggio è prima di tutto rivolto alla Ue. La requisitoria che ha accompagnato mercoledì il Rapporto sul debito rinfacciava a Roma il rallentamento dell’«impulso riformista». Confindustria, proprio ieri, aveva addossato appunto all’«incertezza politica» la responsabilità del passo da lumaca della ripresa italiana e identico timore, anche se non esplicitato, serpeggia anche a Bruxelles.

Il premier risponde rivendicando di aver «proseguito sul cammino delle riforme con decisioni anche molto rilevanti». Ammette le «perduranti difficoltà economiche», a fronte delle quali bisogna però registrare anche «segnali positivi e molto incoraggianti».

Per magnificarli il conte si abbandona a toni renziani, quando parla di una crescita che «ha lasciato il segno meno e anche lo 0,», oppure quando, schiaffeggiando la realtà che parla di un crollo radicale dei contratti a tempo indeterminato con l’esaurirsi degli incentivi, definisce i dati sul lavoro «contraddittori ma fondamentalmente positivi». Ma Gentiloni sa perfettamente che la Commissione non può accontentarsi di questo diluvio autocelebrativo.

Quindi promette all’Europa quel che l’Europa vuole: «Le operazioni che dobbiamo fare col Def chiedono un’ulteriore accelerazione del ritmo delle riforme, e lo faremo».

Solo che l’inquilino di palazzo Chigi deve fare i conti anche col suo predecessore che, invece, di uniformarsi alle richieste europee non vuol saperne.

I renziani hanno preso malissimo gli impegni assunti a Bruxelles da un Padoan che, con le spalle al muro, non avrebbe peraltro potuto fare altrimenti. «Siamo stati mille giorni senza alzare le tasse: non vorremmo smentirci all’ultimo minuto», aveva dichiarato a botta calda il capo dei deputati Rosato, e il passaggio sulle privatizzazioni, in particolare quella delle Poste ma con incombente anche quella delle Fs, è piaciuto anche meno.

Gentiloni cerca anche di dare a Matteo quel che è di Matteo. Prima di tutto non citando neppure di sfuggita quella manovra che Bruxelles reclama e senza la quale la procedura d’infrazione scatterà automaticamente o quasi.

Poi, riprendendo uno dei leit-motiv preferiti del segretario: «Sarebbe un errore politico micidiale se il governo deprimesse o dissipasse questi segnali di crescita». Però coniugare il rispetto degli impegni assunti a Bruxelles e l’obbedienza agli imperativi di Renzi significa tentare di camminare su una fune non solo tesa ma scossa violentemente dai colpi di vento di un quadro europeo tutt’altro che sereno.

La scissione, o meglio la tenaglia rappresentata dagli scissionisti da un lato e dai renziani dall’altro, complicherà la vita già molto difficile del governo.

Per quanto siano più che intenzionati a difendere l’esecutivo, soprattutto in politica economica i nuovi gruppi dovranno difendere un’identità alternativa rispetto al Pd, nel quale peraltro i renziani faranno il possibile per tendere trappole e creare provocazioni per provocare una crisi e accelerare le elezioni senza assumersene la responsabilità.

Gentiloni nei prossimi mesi avrà bisogno di tutta la diplomazia che i natali vaticani gli hanno portato in dote.