Ieri era il Blue Monday, il giorno più triste dell’anno. Per l’Italia rischia di esserlo davvero. L’ora della resa dei conti è arrivata: annunciata e prevista, anche se non in forme così rudi e ultimative. La lettera firmata dal commissario europeo all’Economia Moscovici ieri sera non era ancora arrivata. Le voci da Bruxelles ne prevedevano la partenza nella notte. In ogni caso nessuno si illude sulla possibilità di aggirare la richiesta europea: una manovra da 3,4 miliardi, pari allo 0,2 del Pil. Quei due decimali rappresentano lo scostamento dal tetto fissato dalla Ue e comunicato a Renzi a Bratislava: il massimo consentito nel rapporto deficit/Pil era il 2,2%. La legge di bilancio italiana lo ha portato al 2,4%. L’Europa intimerà di ricondurlo nei confini preordinati. Vuol dire che servirà una manovra aggiuntiva. Il governo farà i salti mortali per chiamarla in altro modo, Alfano già si produce nel risibile esercizio, ma la sostanza non cambia di un centesimo.

La sgradita novità riguarda i tempi. La lettera-diktat, se non verrà modificata in corso d’opera, porrà una data precisa se non la per la nuova manovra almeno per il suo annuncio: entro il primo febbraio. In caso contrario il rischio di procedura d’infrazione è più che concreto. Tanto che, caso più unico che raro, ad ammetterlo è lo stesso Padoan, che ieri ha affrontato la crisi direttamente col premier Gentiloni oltre che con Bruxelles. Il Mef riconosce anche che la riduzione del debito non marcia con la velocità sperata. Ne attribuisce la colpa all’andamento dei prezzi, cioè al loro abbassarsi, alla deflazione, e alla «condizione avversa dei mercati finanziari che non hanno reso possibile la cessione di beni del patrimonio dello Stato a condizioni adeguate». Il Mef specifica però che comunque non verranno «svenduti asset nazionali».

Con ogni probabilità l’Italia chiederà alla Ue di spalmare la nuova manovra nei prossimi anni, in modo da rispettare gli obblighi senza incidere negativamente sulla crescita. Per questo ieri il ministro dell’Economia ha ammesso la possibilità di nuovi interventi mettendo al contempo le mani avanti: «Vedremo se sarà il caso di prendere misure ulteriori per rispettare gli obiettivi. Ma la via maestra per abbattere il debito è la crescita». Il guaio per l’Italia è proprio la lentezza nel rientro dal debito, che continua anzi a salire ed è ben oltre il limite del 60% definito dai parametri. Ma misure tali da danneggiare ulteriormente la crescita innescherebbero una spirale perversa di tipo greco.

Il punto dolente è che gli indicatori non autorizzano affatto quell’ottimismo che sarebbe invece necessario per ottenere quanto l’Italia si appresta a chiedere. Ieri i dati Istat hanno certificato che, per la prima volta dal 1959, l’Italia è in aperta deflazione, confermando così quell’«andamento negativo dei prezzi» che il Mef indica come causa prima del ritardo nel rientro del debito. E l’Fmi ha annunciato dati positivi per quasi tutti ma negativi per l’Italia. Nei Paesi dell’eurozona la crescita si stabilizza e si rafforza, sia pure a passo di tartaruga. In Italia no. Le stime per quest’anno sono di una crescita dello 0,7%, cioè 0,2 in meno rispetto alle previsioni di ottobre e 0,3 rispetto a quelle del governo Renzi. Per il 2018 il Fondo prevede invece lo 0,8%, dunque 0,3 in meno rispetto alle sue previsioni precedenti e ben mezzo punto tondo rispetto all’1,3% ipotizzato da Renzi. La causa della mancata crescita è individuata nella debolezza del sistema bancario che «nonostante le importanti riforme strutturali» di Renzi «resta un problema per l’Italia». L’Fmi apre così implicitamente a quello che sarà il secondo round nel contenzioso tra Italia ed Europa: la trattativa sul decreto salva banche.

C’è un secondo elemento problematico, di natura più politica. Ieri la Germania si è lanciata in un affondo durissimo contro l’Italia per la vicenda delle emissioni delle auto Fca. Il ministro tedesco dei Trasporti Dobrindt chiede alla Ue il richiamo per tre modelli, Fiat 500, Doblò e Jeep Renegade, per violazioni sulle emissioni e attacca anche l’Italia: «Non ci sono prese di posizione e risposte da parte dell’Italia. Questo non ci rende certo felici». La Commissione europea duetta: «Abbiamo ripetutamente chiesto all’Italia di presentarci risposte convincenti. Il tempo si sta esaurendo». Anche in questo caso spunta lo spettro di una procedura d’infrazione.
Anche se Padoan nega l’evidenza e giura di non vedere «motivi di contenzioso con la Germania», lo scontro è frontale. L’Italia risponde a muso duro. Tutti i ministri coinvolti, da Calenda a Galletti a Delrio, negano validità ai test della Germania e contrattaccano additando il caso Volkswagen. «Non ci sono dispositivi illegali dimostrati», afferma Delrio e ricorda che «sono le autorità di omologazione di ogni Stato che decidono se un dispositivo è lecito oppure no». Impossibile dire come finirà, ma dal punto di vista politico il segnale lanciato col doppio attacco è chiaro e negli ambienti di governo non se lo nasconde nessuno: «Ci vogliono stritolare».