Era stato lasciato scorrere come poco più che un comune fatto di cronaca, l’attentato al Museo ebraico di Bruxelles, il 24 maggio del 2014 nel centralissimo quartiere dei Sablon. Tra le viuzze, le belle piazzette e i locali di questa sorta di Trastevere in salsa belga, un uomo aveva parcheggiato un’Audi nera in doppia fila, era entrato all’interno e aveva cominciato a sparare. Poi era fuggito lasciando a terra, uccisi, un dipendente belga del museo, una volontaria francese e una coppia di turisti israeliani cinquantenni.

Era la vigilia delle elezioni europee e la notizia non rimase a lungo sulle prime pagine dei giornali e nei titoli dei tg. Le autorità lo qualificarono subito come un «atto antisemita» e una settimana dopo nella stazione ferroviaria di Saint Charles fu fermato un ventinovenne franco-tunisino, Mehdi Nemmouche, proveniente da Roubaix, città deindustrializzata del nord della Francia dove il 20 per cento della popolazione è di religione musulmana (ma con forti politiche di integrazione) e con gravi problemi sociali: oltre la metà della popolazione vive sotto la soglia della povertà e il tasso di disoccupazione è al 22 per cento. Nemmouche era finito in carcere per una rapina nel 2006, lì si era radicalizzato e, una volta uscito, nel 2013 se n’era andato a combattere in Siria. Al momento dell’arresto, gli erano stati trovati addosso il kalashnikov e la pistola utilizzati nell’attacco al Museo ebraico.

Solo ora emergono i legami con la cellula jihadista degli attentati di Parigi e Bruxelles. Nemmouche era legato ad Abdelhamid Abaaoud, considerato la mente degli attentati di Parigi e il New York Times, citando fonti di intelligence e giudiziarie europee e statunitensi, scrive che l’attacco fu organizzato per «testare» la capacità di reazione delle forze di sicurezza belghe. Che non fu granché, visto che il museo era sostanzialmente incustodito, nonostante rappresentasse un potenziale bersaglio di azioni terroristiche, e l’attentatore solitario poté con tutta calma arrivare in auto, rimontare a bordo dopo la strage e tornarsene in Francia senza che nessuno lo fermasse. Missione compiuta, per gli jihadisti belgi, che in due anni avrebbero poi avuto tutto il tempo di fare anche altri «test», anche se non è chiaro quali, prima di organizzare gli ultimi attentati, che sarebbero potuti essere ancora più devastanti se la cellula non avesse deciso di anticipare tutto per «vendicare l’arresto di Abdeslam Salah».
Tra gli attentatori di Bruxelles non ci sarebbe Faiçal Cheffou, il giornalista free lance arretato con l’accusa di essere «il terzo uomo» dell’attentato all’aeroporto e poi rilasciato. Cheffou si è detto completamente innocente, aggiungendo di essere contro l’Isis e assicurando di non aver alcun legame con gli attentatori, ha spiegato il suo avvocato Olivier Martins.

Alla base dell’errore giudiziario ci sarebbe il riconoscimento del tassista Cheffou ha pure anche di aver reclutato aspiranti jihadisti nel parco Maximilien a Bruxelles, dove vivono in alloggi di fortuna centinaia di migranti (due anni fa vi arrivò pure la Carovana no border di attivisti e richiedenti asilo da tutta Europa). Il sindaco di Bruxelles Yvan Mayeur aveva emesso una diffida nei suoi confronti a settembre, impedendogli di entrare nel parco e ancora ieri ha insistito, definendolo «un agitatore» e un «potenziale reclutatore di jihadisti». Secondo il suo legale, Cheffou avrebbe un alibi per le ore degli attentati, verificabile pure dai tabulati telefonici.

Ma le polemiche sugli errori dell’intelligence belga non si placano. Il ministro della Giustizia olandese, Ard van der Steur, ieri ha detto davanti al Parlamento de L’Aja che l’Fbi aveva trasmesso alla polizia olandese informazioni sui precedenti criminali ed estremisti dei fratelli Ibrahim e Khalid El Bakraoui, i kamikaze dell’aeroporto di Bruxelles, il 16 marzo, sei giorni prima degli attentati. Il giorno dopo le informazioni sarebbero state girate alla polizia belga, che però ha smentito l’accaduto, confermando solo un incontro e alcune «comunicazioni» dopo sull’operazione anti-jihadisti di Forest.

Intanto, un consigliere comunale socialista di Molenbeek, Jamal Ikazban, ha denunciato il fatto che domenica sera sms di propaganda jihadista sarebbero stati inviati a diversi giovani del luogo. Il messaggio, proveniente da un numero di una carta prepagata irrintracciabile, fotografato e pubblicato su Twitter dal politico, recitava in francese: «Fratelli miei, perché non unirsi a noi per combattere gli occidentali? Fate le scelte giuste nella vostra vita».