La statua dorata di San Michele, uccisore del drago, protegge ancora la Gran Place di Bruxelles con i suoi simboli alchemici e la conchiglia di San Giacomo incastonata nelle pietre del selciato a indicare ai pellegrini l’inizio del cammino per Santiago di Compostela. Ma, anche se i locali che danno sulla piazza sono pieni come sempre, l’aria che si respira trasmette un senso di normalità forzata, sorvegliata dalla presenza delle forze dell’ordine. Un’atmosfera che vira bruscamente verso la tensione quando si passa l’invisibile confine che separa la parte storica da quella degli edifici dell’Unione europea, che appaiono in questi giorni come enucleati dal resto, parte di una geografia del potere che, anche attraverso la militarizzazione del territorio, sembra riaffermare la sua alterità rispetto al resto della città.

Percorrendo le strade che collegano il Parlamento alla Commissione, il Consiglio alle sedi delle rappresentanze diplomatiche, si avverte l’aura sinistra di questo gigante ferito, ridotto oramai a un insieme di dispositivi economici che non riescono a spiegare come mai dalle periferie di quella stessa città da cui governa il destino di un intero continente, siano nati i mostri che lo attaccano.

L’aria di assedio è palpabile, ma non è generata tanto dai blindati agli angoli delle strade o dai militari all’entrata della metropolitana, né dalla cintura dei quartieri etnici che sembrano circondare come un accampamento permanente gli scintillanti edifici dai nomi che ricordano un ideale di inclusione troppe volte tradito in nome della ragione mercantile per suscitare il rispetto di chi li osserva solo da lontano. Se qualcosa questi attentati hanno svelato, a cui cioè hanno tolto il velo, è invece la distanza tra eurocrazia e cittadinanza, non solo quella immigrata, ma tutta quanta, inclusi i cittadini autoctoni.

E’ da questa separatezza che nasce il senso dell’assedio. La cittadella delle istituzioni comunitarie si arrocca nelle sue prerogative circondandosi di apparati difensivi che la isolano dal flusso della vita corrente. Anche chi condanna senza riserve il terrorismo, infatti, non può non chiedersi come e perché questi stessi palazzi, con le loro logiche, abbiano contribuito a generare l’odio e il fanatismo che ora li prendono di mira. Bruxelles si svela dunque a se stessa come un microcosmo ridotto a una enorme scacchiera, come oramai lo sono tutte le megalopoli del mondo, in cui basta girare l’angolo per cambiare continente e tempo, in cui si confrontano le contraddizioni di una costruzione europea incompiuta, che esclude le sue stesse periferie e si chiude in se stessa senza sapere però chi è veramente. La caccia alle cellule dormienti del Califfato ha scuoiato la pelle superficiale della capitale europea per mostrare i suoi nervi più sensibili, le contraddizioni che vivono tra le maglie dei suoi territori marginali.

Avventurarsi poi nei quartieri di immigrazione araba, a Molenbeek, significa sperimentare tutto il peso della distanza che si è accumulata negli anni tra le differenti culture. Mentre in centro, e nella zona dei palazzi europei, le forze dell’ordine si mostrano in modalità «difensiva» qui invece l’attitudine è chiaramente offensiva, deterrente, quasi provocatoria, come muoversi attraverso una perquisizione permanente.

Dalle finestre le donne e i bambini scrutano ansiosi le strade, mentre gli uomini restano distanti e taciturni, si allontanano quando un «forestiero» gli si avvicina. Il sospetto e la diffidenza verso i volti sconosciuti si rendono palpabili e fanno capire che qui vigono dinamiche peculiari, che gli attentati hanno fatto degenerare in tutta la loro radicalità. Camminando per le strade sembra che tutta la popolazione si interroghi sul suo essere in quella situazione, colpevolizzata dall’appartenenza religiosa, sospettata per la fede che professa. In certi momenti si rivivono le pagine dello Straniero di Camus.

Ma anche la rabbia si sente attraverso i commenti ai fatti di sangue da parte dei residenti. La rabbia per essere stati abbandonati quando si chiedeva invece di essere considerati, prima che l’integralismo mettesse radici nell’esclusione sociale. Tornando a fine giornata verso l’aeroporto ormai riaperto ai voli, si finisce così per ricomporre in un quadro policromo tutte queste situazioni accomunate da un grande senso di spaesamento, l’immagine di una città e dei suoi cittadini che riflettono quelli di tante altre situazioni che ogni giorno rischiano di esplodere in bagni di sangue senza che i sintomi siano rilevati con chiarezza e possibilmente sradicati.

Eppure, come sempre, se si va oltre le apparenze e i condizionamenti indotti dalle notizie di seconda mano, mediate dai grandi mezzi di comunicazione di massa che si rivendono il terrore, a Bruxelles si possono, in questi giorni, trovare sguardi limpidi, anche a Molembeek, anche nell’atrio del Parlamento europeo. Sono gli sguardi dei ragazzi che visitano le istituzioni europee, che ascoltano la storia di Spinelli, che vanno oltre il dramma contingente per ritrovare le ragioni fondative di un grande sogno, forse ferito a morte ma che può ancora riservare delle belle sorprese.