Adesso, nel vuoto improvviso, ogni città è diventata un gigante. Il vuoto improvviso ha reso inutile la convenzione delle misure urbane e di tutto ciò che stabiliva se la città fosse piccola, media, grande, metropoli; ha riempito ogni città di un silenzio che mentre cammini per strada rimbalza, si dilata, scivola, si allunga, fa emergere suoni finora impossibili da sentire. Le zampe di un cane che ticchettano sul selciato del marciapiede, il rumore delle chiavi dentro la tasca della giacca, un colpo di tosse da chissà dove, chiacchiere dietro persiane semichiuse. Il vuoto e il silenzio hanno trasformato i luoghi più familiari in un paesaggio sospeso, che stenti a riconoscere.

In piazza, nella tua piazza, non ci venivi da giorni. Il vuoto e il silenzio hanno dissolto il viavai della gente, cancellato il rito degli appuntamenti; messo a tacere i richiami dei mercati, le chiacchiere su una panchina o al tavolino di un bar. Qui, oggi, primo maggio, sarebbero arrivati i cortei, sul palco qualche discorso e poi la musica. Niente a che vedere con Roma, San Giovanni e il Concertone, però… Ti aspetti una botta di malinconia. Inutilmente. Eppure gli ingredienti ci sono tutti, neanche un’anima in giro, serrande abbassate, solo l’autista sui bus che passano. La piazza deserta, muta, non suggerisce tristezza, non mette voglia di andarsene via. Certo è la prima volta che la vedi così, due ali di palazzi antichi, i portici illuminati dai lampioni sospesi, il selciato in pietra. E poi la prospettiva verso il fiume, beato chi se la gode dalle terrazze o dalle finestre degli abbaini. Sotto i portici scopri le insegne e le vetrine dei negozi d’epoca, i decori dei portoni di legno, gli scorci dei cortili dietro le sbarre di un cancello, una targa che racconta e un’altra che ricorda. Allora capisci. Vuoto e silenzio hanno restituito la piazza a sé stessa, e lei si è restituita a te, che dicevi di conoscerla, ma non era vero. Vuoto e silenzio avvolgono anche tre famose piazze del mondo, Senza la folla del turismo, le vedreste così.

Bruxelles, la Grande Place 
Misura 110 metri per 68. Su di lei affacciano trentanove palazzi (Maison), diciassette sono in parte occupati da café, bistrot e ristoranti. Trenta i fortunati possessori di un appartamento. A completare le architetture della Grand Place, l’Hotel de Ville (il Municipio) e la Maison du Roi. Alla fine del X secolo, bonificato il terreno paludoso, nell’area della Place si installa un mercato all’aperto. Tre secoli dopo i duchi di Brabante costruiscono i mercati coperti per carni, pane, tessuti. Nel 1362, il Consiglio cittadino, oltre a realizzare un nuovo mercato dei tessuti, acquista e demolisce abitazioni e negozi per definire i confini della Place.

Bruxelles, Grande Place

Nel 1401, chiuderanno nel 1455, vengono inaugurati i cantieri del Municipio. Parallelamente cominciano a sorgere le abitazioni dei mercanti e le sedi delle Corporazioni. Sono quasi interamente in legno, e questo sarà loro fatale. Dal 13 al 15 agosto del 1695, durante la Guerra dei nove anni, le artiglierie di Luigi XIV, il Re Sole, radono al suolo la Grand Place. Soli superstiti perché in pietra, il Municipio e la Maison du roi. Con la pietra, in appena quattro anni, gli edifici saranno ricostruiti, ma successivi e nefasti interventi, uniti all’incuria, precipiteranno la piazza nel degrado. Rinascerà grazie ai massicci lavori di recupero decisi da Charles Buls, borgomastro di Bruxelles a fine ’800.

Architetture gotiche ma soprattutto barocche, guglie, tetti a cupola, finestre e balconi incorniciati nell’oro dei fregi, stucchi e volute, colonne neoclassiche, scalinate di marmo, file di archi, logge sono meta di un pellegrinaggio vacanziero che non conosce sosta e stipa al limite della capienza la Place, i locali, i souvenir shop. Seguendo le bandierine delle guide, i turisti del pianeta intero sgomitano per fotografare le Maison più celebri, entrano ed escono a passo veloce dall’Hotel de Ville; rendono scaramantico omaggio (si dice porti fortuna toccarla) alla figura in bronzo che immortala Everard ’t Serclaes, nobile eroe trecentesco; fanno un salto al Museo della birra o del cioccolato, sgranano selfie e poi via, verso il vicino Manneken-Pis.

Certamente, gli obbiettivi degli smartphone e delle macchine fotografiche hanno inquadrata senza volerlo, senza badarci, una delle ‘creature’ che appartengono al popolo di pietra della Grand Place: statue, bassorilievi, capitelli, busti, medaglioni, sculture, di santi, sovrani, uomini di chiesa, allegorie.
Sfugge all’occhio, il popolo di pietra, messo in ombra dall’esuberanza delle architetture e dall’indifferenza del mordi e fuggi. Ma nel vuoto e nel silenzio dell’oggi, eccolo comparire, farsi subito visibile proprio lungo il porticato dell’Hotel. I capitelli di due colonne raffigurano rispettivamente un monaco che esce da una grotta e un gruppo di monaci seduto a tavola. Un terzo mostra la scena di un uomo nell’atto di sgozzare un giovane, suo nipote. Colpevole di stupro, il giovane, risparmiato dal boia, scappò. Anni dopo si ripresentò allo zio per chiedere perdono, ma questi prese un coltello e lo uccise.

Inconfondibile la Maison du Pigeon, del piccione, per via dei pilastri con mascheroni grotteschi tra le finestre del primo piano. Santa Barbara è duplice presenza: bassorilievo posto al secondo piano della Maison Saint Barbe e busto iscritto in un tondo della Maison de La chaloupe d’Or, dal cui tetto la statua di Sant’Omobono, patrono dei tessitori, benedice credenti e non. Gli risponde, da identica posizione e dalla Maison du Renard, la statua di San Nicola, ricollocata lì nel 2018.

Al terzo piano della Maison du Cornet, il gruppo scultoreo con al centro Nettuno e ai lati due tritoni in sella a cavalli marini. Il portale della Maison de l’Hermitage, uno dei sette edifici del complesso della Maison dei duchi di Brabante, è sormontato dal bassorilievo di un eremita.

È invece un altorilievo La lupa che allatta Romolo e Remo, effige sopra l’ingresso della Maison de la Louve, della Lupa, appunto. Due piani più su, vari scultori hanno rappresentato la Verità, la Menzogna, la Pace e la Discordia. Quante sono le creature del popolo di pietra? Magari qualcuno si è preso la briga di contarle. Nessuno, però, potrà mai sapere se altre creature ornavano le fontane che tra il ’400 e il ’600 furono collocate al centro della Grand Place. Se n’era persa memoria, l’hanno recuperata i ricercatori di CReA-Patrimoine, dipartimento dell’Université Libre di Bruxelles. I sondaggi, conclusi nei primi mesi del 2019, hanno evidenziato una fitta rete di tubazioni per l’approvvigionamento delle acque, oltre a numerosi resti di strutture medioevali. Quando la Place verrà di nuovo invasa dai turisti, voi andateci a notte fonda. Ritroverete il vuoto e il silenzio. Condizioni indispensabili per incontrare il popolo di pietra e ascoltare il canto delle fontane sparite.

Marrakech, notte fonda su Jemaa el-Fna
C’è uno spazio pubblico reale e vissuto dei più stupefacenti che si conosca. Siamo alle porte della Medina di Marrakech, in un luogo celebre, Jemaa el-Fna: spianata triangolare in lieve discesa verso la moschea della Koutoubia; nodo inestricabile di flussi che hanno portato mercanti, viaggiatori, contadini a incontrarsi e a scambiare merci e storie. Questa piazza è un paradosso, poiché non vi è nulla nella sua forma che abbia il merito di tanta vitalità». È l’incipit di un breve saggio di Alberto Jacovoni, scritto nel periodo della sua militanza in Stalker/ Osservatorio Nomade, collettivo di architetti e artisti nato a Roma nel 1995. Verissime le parole di Jacovoni.

Quando la notte fonda disperde il suo popolo, Jemaa el-Fna si mostra per quel che è: insignificante, sprovvista della benché minima attrattiva. A renderla bella provvede l’umanità che quotidianamente la occupa, ne restringe il perimetro, riesce a nasconderla. Ma sono questa umanità, questa bellezza, a costituire un secondo e contrario paradosso, di cui il turismo rappresenta la causa scatenante.

La forza vitale che per secoli ha impregnato Jemaa el-Fna è ormai artefatta, plasmata sugli stereotipi occidentali dell’esotismo. Protagonisti del gran circo ad uso del turista, dove si masticano tutte le lingue del mondo, sono cartomanti, cantastorie, chiromanti, incantatori di serpenti, venditori di amuleti e di arance, musici, donne che tingono mani e corpo con l’henné, i ristoranti allestiti al tramonto. Si respira aria di falsità, e allora viene da chiedersi per quale ragione, dal 1998, l’Unesco abbia incluso la piazza nel suo Patrimonio.

Ma ciò che conta oggi è altro. Jemaa el-Fna, costretta dagli eventi a chiudere il circo, può invece colmare il vuoto che l’ha condannata all’anonimato, al ‘non essere’. Può farlo specchiandosi, finalmente libera, nel passato che il suo nome riflette. Per comprenderne bene la forza bisognerebbe poter guardare la piazza dal minareto della moschea Koutoubia, settanta metri di altezza e dieci secoli di età. Impensabile, perché lì, a chi non sia musulmano è fatto divieto di entrare.
Immaginiamo di essere saliti. Sotto di noi la spianata triangolare, dove stanno facendo il loro ingresso soldati in uniformi di un’epoca molto lontana. Spintonano, picchiano, insultano un uomo, lo costringono a inginocchiarsi, gli legano le mani dietro la schiena. Intanto si è radunata una folla che guarda terrorizzata la scena e la copre parzialmente ai nostri occhi. Improvvisamente si levano urla strazianti e invocazioni di pietà. L’uomo sta subendo il supplizio della tortura, e la piazza è stata scelta per infliggerlo al cospetto della gente. Alcuni prenderanno a chiamarla Jemaa el-Fna, ‘Assemblea dei morti’. Il terribile soprannome passerà di bocca in bocca.

Dissolvenza temporale, diciassettesimo secolo. L’ennesima epidemia di peste ha investito il Marocco, centinaia di persone muoiono ogni giorno. Sulla spianata triangolare, uomini donne, bambini piegati dalla malattia si sdraiano accanto alle fondamenta di una moschea. Doveva sorgere lì, la peste l’ha fermata. Alcuni prenderanno a chiamarla Jemaa el-Fna, ‘Moschea dell’ Annientamento’.

L’inquietante soprannome passerà di bocca in bocca. È un passato tragico che nessuno dei circensi mai si sognerebbe di raccontare all’entusiasta signore americano, alla signorina inglese dal wonderful facile, alla coppia di italiani generosi di pacche sulle spalle. Il dolore non si addice alla piazza del nulla. E lo spettacolo, si sa, deve continuare.

Sarajevo, la fontana e le rose della Bašcaršija
«Sebil», in lingua araba ‘strada’. A Sarajevo indicava gli istituti di carità che nelle immediate vicinanza dei mercati distribuivano il pane e l’acqua ai poveri, tradizione antica di tredici secoli. Fu così che il popolo prese a chiamare sebil le fontane pubbliche. Testimonia la storia che le sebil di Sarajevo fossero più di cento. Bruciarono tutte nel 1697, quando l’esercito del principe Eugenio di Savoia, al servizio dell’impero asburgico durante la quinta guerra austro-turca, mise a fuoco la città. 

Sarajevo

Cinquant’anni dopo, l’emiro bosniaco Mehmed Pasha Kukavica fece realizzare una sebil in legno e la collocò al centro della piazza della Bašcaršija. Ancora le fiamme se la portarono via. Fu ricostruita nel 1891. Quella fontana assurse a simbolo di un quartiere di profonde radici ottomane (gli Asburgo provarono senza successo a estirparle), fondato nel Quindicesimo secolo dal bey Gazi-Husrev Beg. Radici evidenti nelle architetture dei palazzi, nella topografia delle vie e soprattutto nello sterminato bazar. Bašcaršija deriva dal turco bas carsi, mercato principale. Era un piccolo mondo in cui islam, cristianesimo, ebraismo convivevano in pace; portato ad esempio di una Jugoslavia multietnica dal regime del maresciallo Tito.

Le invocazioni del muezzin dal minareto della moschea, le campane della cattedrale cattolica e della cattedrale ortodossa, le preghiere della sinagoga appartenevano alla quotidianità. Se un turista si sedeva a uno dei caffè che circondavano la piazza, e lì non si serviva vino o birra, era il padrone stesso a dirgli in quale andare. I turisti erano tanti, tantissimi; fonte di guadagno, e insieme presenza estranea che poteva mettere a rischio l’autenticità culturale del quartiere, del tessuto commerciale, delle relazioni sociali. Timori resi inutili dalla guerra del ’92, Sarajevo assediata e massacrata per tre anni.

Dopo la ricostruzione, i turisti erano tornati, e con loro i venditori del bazar. Il nuovo, invisibile assedio ha dettato l’emergenza e imposto il coprifuoco, lasciando sulla piazza soltanto i piccioni, i gatti in cerca di cibo e la sebil. Emergenza, coprifuoco. Parole che risuonano nella solitudine provvisoria della Bašcaršija, impossibili da dimenticare, ma nessuno lo vuole. Ora che le insegne dei fabbri, dei ramai, dei sarti, dei ceramisti vegliano sulle botteghe chiuse, e identica sorte è toccata ai caffè e alle trattorie della Ferhadija, la strada maestra, diventa più facile cercare le Rose di Sarajevo. Non hanno profumo, non fioriscono, non appassiscono, non si raccolgono.

Vederle sì, questo puoi farlo, abbassando lo sguardo sull’asfalto delle vie. Le rose di Sarajevo le hanno seminate i mortai dell’esercito serbo, lasciando grandi buchi circondati a raggiera da buchi più piccoli. Quando tutto è finito, la gente ha cominciato a riempirli di resina rossa. Il sangue e le rose hanno identico colore.