Oggi l’Unione europea farà tuonare la propria voce con il governo britannico. La doglianza riguarda il trattamento semi-totalitario inflitto a svariati cittadini europei di nazionalità tedesca, greca, romena, spagnola e ovviamente italiana, bloccati nei giorni scorsi all’ingresso nel paese senza la documentazione ritenuta necessaria per lavorare e schiaffati in quelle che sono carceri in tutto se non in nome (li chiamano «centri di detenzione») prima di vedersi piazzati sul primo aereo.

La notizia ha fatto il giro d’Europa e ha comprensibilmente acceso gli animi sulla condotta sfacciatamente discriminatoria di questo governo, che su di essa ha costruito, peraltro, la propria solidità elettorale sin dai tempi in cui Theresa May – lei stessa ministro dell’interno nell’allora governo Cameron – aveva applicato la tossica narrativa dell’ambiente ostile, poi suppurata nello scandalo Windrush: il «rimpatrio» forzato di cittadini di origine giamaicana nati e cresciuti nel paese. Del resto, questo è il trattamento da tempo ricevuto da tutti i migranti non europei apparentemente privi della documentazione necessaria.

Come primo incontro post-Brexit dei rappresentanti dei 27 per discutere i rapporti con l’ex-ventottesimo davvero non promette bene, anche se le contorsioni che avevano contraddistinto il sospirato approdo all’assetto attuale dei rapporti fra il blocco e il membro fuoruscito a trazione conservatrice non lasciavano sperare in granché di meglio.

Ed è un aggravio ulteriore al fardello che i due ex-soci e ora apertamente contendenti si trovano a dover trascinare, e a cui il contenzioso di mesi fa sul vaccino AstraZeneca aveva fatto da apripista. Trattandosi del suo trofeo propagandistico, l’aspetto della mobilità era stato espunto dal Trade and Cooperation Agreement faticosamente negoziato alla fine dell’anno su espressa richiesta del governo Johnson. E ora la decisione di Bruxelles d’intervenire a livello unitario dopo aver seguito i singoli casi unilateralmente attraverso le rispettive rappresentanze diplomatiche corrobora la serietà della questione.

Il trattare donne e uomini – prima ancora che cittadini di qualsivoglia nazionalità – che vengono a offrire il proprio lavoro (e quindi assai più spesso che il contrario a farsi sfruttare) alla stregua di pericolosi criminali non è che uno dei pastrocchi in cui era prevedibile questo ministero dell’interno sarebbe precipitato in un periodo vieppiù complicato da una pandemia globale.

Anzi, tale è l’estatico abbandono con cui il dicastero targato Patel si è concesso il piacere dell’espulsione da averla minacciata ai suoi stessi connazionali: nei giorni scorsi migliaia di cittadini britannici di origine «europea» legalmente acquisiti (alcuni residenti qui da 40 anni e più) si sono visti recapitare un’email che li esortava a richiedere il famigerato settled status prima dell’imminente scadenza, il prossimo 30 giugno. Una ricezione che ha comprensibilmente gettato nel più nero sconforto, quando non nel panico, molti di loro.