Dopo aver fatto fuori Boris Johnson Michael «Brutus« Gove e sua moglie Lady Macbeth sono pronti a dare alla Gran Bretagna un primo ministro il cui euroscetticismo è a prova di mandato. Annunciando giovedì mattina a sorpresa la propria candidatura a premier dopo aver giurato e spergiurato che fare il leader del paese non era un lavoro per lui, Gove silurava automaticamente quella di Johnson, e poneva del tutto fine alla carriera politica dell’amico ed ex-sindaco di Londra. Una specie di «Boris stai sereno» in salsa Worcestershire.

Non si tratta di ambizione personale, ma di ortodossia ideologica. Gove, ministro della giustizi in carica, sa perfettamente di non avere mezza oncia di carisma, e l’ha anche dichiarato ieri mentre presentava la propria candidatura a leader. Sa inoltre di non avere l’ambizione e l’ostinazione che servono a guidare il paese in un momento così drammatico.

Ma sa anche che è stato per una questione di ego che l’ormai ex amico Boris Johnson, il cui euroscetticismo era prêt-à-porter (nel senso che doveva portarlo presto a Downing Street, 10) era saltato con lui nella corazzata Brexit. E ha temuto, probabilmente non a torto, che Boris il bonario si sarebbe lasciato corrompere dagli smidollati propugnatori di una linea morbida nei confronti dell’Ue e soprattutto dell’odiata libera circolazione delle persone, sulla quale – grazie alla cinica alleanza con l’Ukip di Farage – il leave ha vinto il referendum. Per questo ha ritenuto inevitabile farsene carico lui stesso: «I’ mi sobbarco», per dirla con Dante.

«Questa settimana mi sono reso conto che con tutto il formidabile talento di Boris, non è la persona giusta per il compito» ha detto, commentando la propria candidatura. Una scelta che vuole garantire una gestione senza compromessi sull’uscita del paese dall’Ue, e che soprattutto non faccia sconti al programma di controllo dell’immigrazione. Gove ha annunciato infatti che in caso di sua vittoria scatterebbe subito l’adozione del sistema a punti australiano promesso in campagna referendaria. Ha anche intenzione di tenere testa alle pressioni di Bruxelles e di non far scattare il cronometro dell’articolo 50 del trattato di Lisbona sull’uscita di un paese membro dall’Unione prima di un paio di anni.

Ma il suo assassinio politico di Johnson non è piaciuta nel partito e fuori, consolidando le chances della rivale, il ministro dell’interno Theresa May, per la quale si schiera il Daily Mail, (giornale dove scrive la moglie di Gove). Oltre a May (che era per il remain ma ha detto eloquentemente: «Brexit is Brexit») e Gove, i candidati definitivi sono Stephen Crabb (remain), Liam Fox e la ministra per l’energia e il clima Andrea Leadsom, entrambi euroscettici convinti. L’esito della corsa sarà reso noto il 9 settembre.

Intanto il clima di tensione e incertezza che regna nel paese è intensificato dal cocktail di notizie destabilizzanti sul fronte dell’economia e di tensioni sociali. Ieri l’amministratore delegato della compagnia aerea lo-cost EasyJet ha ammesso come assai probabile una smobilitazione del proprio quartier generale dalla Gran Bretagna, una mossa che potrebbe essere emulata dall’irlandese Ryanair.

Preoccupa inoltre non poco la scia di episodi d’intolleranza e razzismo che si registrano un po’ dappertutto, che non si limitano a colpire la popolazione immigrata ma prendono di mira cittadini perfettamente britannici da generazioni: come a Coventry, dove a una reporter della Bbc di origine caraibica è stato detto di tornarsene «al suo paese».

Sarà anche per questo che il settimanale Economist, faro dei commentatori liberal italiani, dopo essere sceso sulla terra ha pubblicato una spettacolare ridiscussione dei propri presupposti ideologici. Evidentemente ancora sotto shock per l’uscita dall’Ue, in un articolo dal titolo «La politica della rabbia» il solitamente anonimo estensore ripensa le politiche ultraliberiste seguite alla farlocca fine della storia post-89 preconizzata da Fukuyama. Chiudendo puntualmente la stalla dopo la fuga dei buoi.