Eccoli lì, pronti a ritrovarsi in un casolare isolato, pronti all’assunzione di qualsiasi sostanza, pronti a perdersi come se non ci fosse futuro. Sono cinque personaggi, tutti maschili prima ancora che perduti e perdenti. C’è un giovane, mentre gli altri quattro sono un po’ più grandi, ma ancora relativamente e perfettamente in grado di dare un indirizzo alla propria vita. Se non fossero presi da una spirale autodistruttiva dalla quale non sembrano assolutamente in grado di emergere.
Bonifacio Angius i film se li scrive, se li produce, se li interpreta, circondato da amici e colleghi fedelissimi e questa autoreferenzialità costituisce pregi e limiti del suo cinema. I pregi sono legati a un linguaggio rigoroso, preciso che poco concede allo spettacolo meno ancora all’intrattenimento. I limiti sono invece dovuti a una visione disperante, dal taglio che coglie solo una visione distorta e maschile, anche se potrebbe affiorare una qualche possibile, minuscola felicità. «È una storia densa di rabbia, dolore, tenerezza, fragilità, furore, ironia, cinismo e violenza. Una violenza a volte nascosta, velata, a volte evidente, cristallina, subdola e premeditata. La violenza, nei gesti e nei pensieri, negli sguardi e nelle parole, è motore invisibile delle azioni dei personaggi e, attraverso il ritratto di un piccolo mondo autodistruttivo, forma elementare dell’agire umano», queste le dichiarazioni di Angius nelle note di regia che accompagnano il suo nuovo film, I giganti. Inoltre afferma che l’origine del film risale all’orrendo periodo della pandemia con tutto il suo portato di morte, isolamento, difficoltà di prospettiva, che probabilmente la dimensione sarda del film accentua ulteriormente. Già perché ognuno di loro si isola progressivamente dagli altri, precludendosi ogni possibilità, con quel tormentone che recita «Ci sono persone che dicono di fare una cosa e poi ne fanno un’altra».

ALLA PRESENTAZIONE al recente festival di Locarno il film è stato avvicinato a una sorta di western polveroso e solitario, seppure fuori contesto. Ci può essere del vero in questa chiave a condizione di liberarsi dall’immagine canonica dove esistono buoni e cattivi che si confrontano. Qui invece sono tutti brutti, sporchi e cattivi per dirla con Scola, c’è l’alcol, l’arma, la violenza, con l’aggiunta di sostanze che alterano ulteriormente il rapporto con il mondo. Un mondo che non ha prospettiva, che sembra voler ridurre i suoi abitanti umani a quello che in fondo sono, minuscole particelle che appaiono per scomparire in un soffio di tempo, mentre intorno tutto sembra essere indifferente alla loro sorte. Falene che si agitano attorno a una luce inesistente che però potrebbe bruciarli da un momento all’altro, anche se ogni luce lascia poi aperta la possibile fine del tunnel. Speriamo.