In una sezione come Orizzonti, tra quelle della Mostra di Venezia la più votata alla sperimentazione, non risulta affatto stonata la presenza di film puramente di genere, ad esempio di noir e commedie che, ridefinendo i propri perimetri e confini, con i loro rinnovati immaginari potrebbero contribuire ad alimentare dubbi e incertezze sul nostro contemporaneo, spingendo alla riflessione e a letture eccentriche. Tuttavia, nel corso della programmazione, ormai giunta al suo epilogo, i titoli che si sono alternati al Lido hanno mostrato dei limiti proprio sul fronte della ricerca. Molti i temi importanti, se non necessari, di cui prendere visione per ribadire la deriva del nostro mondo. Alcuni prodotti ottimamente confezionati, però, senza che gli autori abbiano messo in mostra l’intenzione di prendersi i cosiddetti rischi, di costringere lo spettatore all’arte del dubbio.

Un esempio illuminante è l’opera prima italiana di Cosimo Gomez, Brutti e cattivi. Racconto sporco, politicamente scorretto e una narrazione ritmata capace di portare avanti l’aspetto nero della vicenda insieme a quello comico. Protagonisti di questa storia bizzarra sono il Papero (Claudio Santamaria), ex circense nato senza gambe, la Ballerina (Sara Serraiocco), la femme fatale senza braccia, che con il Papero costituisce la coppia perfetta, il Merda (Marco D’Amore), rasta tossico che svolge la funzione di assistente del duo menzionato, e Plissé, nano rapper autentico genio nello scassinare casseforti. I quattro pianificano e realizzano una rapina milionaria. E altri personaggi della stessa risma partecipano agli eventi, si frappongono, sparano, inseguono, sognano, aiutano, odiano, amano. Il tutto condito da battute con chiaro accento romano (naturalmente non potevano mancare il cinese, il russo e il nigeriano), con scene esageratamente kitsch che strappano più di una risata a un pubblico voglioso di intrattenimento.

Il tentativo di mostrare il riscatto dei diseredati pare indubbio. E in modo altrettanto evidente è esibito il carattere vano di questo stesso riscatto, perché i poveri, si sa, prima o poi iniziano a lottare tra di loro. La guerra si fa battaglia effimera. E fragile alla fine è la visione proposta, tutta interna a un immaginario già contenuto nello sguardo dello spettatore abituato a cercare gag in Rete o, se più retrò, in uno di quei canali televisivi dove il «romano» dissacra ciò che è già dissacrato e spinge a una risata collettiva consolatoria. Siamo tutti mostri, che ci vogliamo fare?

Un piccolo passo oltre, prova a compierlo l’attore, sceneggiatore e regista israeliano Tzahi Grad che con Ha Ben Dod (Il cugino), film costruito con pochi mezzi (famiglia e casa sono quelle reali del regista), dà una versione aggiornata del conflitto mediorientale con tonalità da commedia. Protagonisti sono Naftali, israeliano che porta avanti un progetto di pace molto ambizioso, un programma televisivo il cui format prevede una continua discussione tra opposte fazioni costrette perciò a comprendere il punto di vista altrui, e Fahed, un tuttofare palestinese che si presenta al posto del fratello per fare dei lavoretti di ristrutturazione nello studio di Naftali. Fin qui, la storia racconta di due uomini che con qualche piccola complicazione trovano un accordo.

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L’ambiente è opprimente ma loro resistono con apparente facilità. Poi si viene a sapere che una ragazza del paesino è stata aggredita e, allora, per Fahed, l’estraneo, le cose si complicano. E la situazione diventa difficile anche per Naftali che non deve solo combattere i pregiudizi degli altri, ma si trova alle prese col timore che prima o poi sarà lui stesso a cedere, a non tener più in conto i suoi principi.

Un conflitto interiore che appartiene a tutti quelli che giorno dopo giorno cercano di regolare la convivenza seguendo l’idea della reciprocità. Un conflitto interiore che, però, non deve essere sopravvalutato, perché tra i demoni di un benestante e ciò che affligge una popolazione, come ad esempio quella palestinese, vi è una chiara e inequivocabile disparità.