Facebook ha bloccato per gli utenti australiani la condivisione di link a notizie locali e internazionali e lo ha fatto per una dichiarata rappresaglia: un disegno di legge del parlamento australiano costringerebbe i colossi del web a pagare gli editori per la condivisione delle notizie.

A fare le spese di questo braccio di ferro tra Zuckerberg e il governo australiano sono state le pagine Facebook dei vigili del fuoco, di enti di beneficenza e di politici, inavvertitamente oscurate perché travolte dal divieto.

IL PRIMO MINISTRO australiano Scott Morrison ha affermato che la mossa di Facebook riesce solo a rendere il suo governo più determinato a far passare la legge e a incoraggiare altri governi a seguirne l’esempio.
Lo spauracchio sventolato da Morrison è ciò che maggiormente preoccupa Zuckerberg: che quello australiano non resti un caso isolato, ma che l’iniziativa venga abbracciata anche dalle autorità di regolamentazione di altri Paesi. Facebook dal canto suo sostiene che la legge australiana la punisce ingiustamente e che questa mossa violerebbe il funzionamento stesso di Internet.

La decisione del governo australiano non è un’iniziativa mirata a Facebook, ma punta a obbligare tutti i componenti del «Gafa», il gruppo dei giganti del web (Google, Amazon, Facebook e Apple), a pagare gli editori per pubblicare i contenuti che producono.

Non è neppure un’idea nata in Australia: la proposta è partita proprio dagli Stati uniti, durante l’amministrazione Trump, raccogliendo gli appelli che da tempo arrivano dal mondo dell’informazione. Non è da ora che le testate lamentano il fatto che i contenuti prodotti vengano utilizzati e fatti circolare gratuitamente sulla rete, creando e alimentando un sistema ritenuto, a torto o a ragione, all’origine della crisi dell’editoria e dell’informazione.

SE FACEBOOK ha deciso di intraprendere un braccio di ferro con il governo australiano, Google, invece, sembra andare nella direzione opposta: piuttosto che lasciare l’Australia, sembra che stia approfondendo i rapporti con gli editori locali e ha annunciato di aver raggiunto un accordo pluriennale con News Corp, il gigante dell’editoria globale gestito da Rupert Murdoch, per pagare i suoi contenuti, sostanzialmente aggirando la legge, mentre la scorsa settimana sono stati stretti accordi simili con diversi editori australiani minori.

La mossa di Google è stata accolta con piacere dal governo che ha detto di essere intenzionato a non approvare la misura se Google e Facebook raggiungeranno spontaneamente accordi sui termini di pagamento con gli editori australiani. News Corp, che possiede una parte considerevole del mercato dei giornali nel Paese, da anni fa pressioni affinché la legge si muova in questo senso. La decisione di Google segna un’enorme vittoria per la campagna di lobby di Murdoch.

I PAESI DI TUTTO IL MONDO stanno studiando modi per costringere le aziende tecnologiche a pagare gli editori e, secondo fonti statunitensi, gli sforzi dell’Australia hanno catturato l’attenzione di alcuni membri del Congresso Usa.

Dall’altro lato le piattaforme online sostengono che gli editori forniscono volontariamente titoli, immagini e collegamenti che gli utenti condividono sui social media e che tale condivisione serve l’interesse degli editori, dal momento che alcuni utenti andranno sulle loro pagine, generando traffico, che porterà inserzionisti, in un sistema economico da cui tutti escono vincitori. Al contrario il coinvolgimento di arbitri di terze parti porterebbe un aiuto ai soli editori che avrebbero la possibilità di ottenere tariffe irragionevoli per divulgare i loro contenuti.

Facebook si difende dichiarando di avere comunque cercato di ridurre sulla sua piattaforma la quantità di contenuti provenienti da notizie condivise dagli editori, nel tentativo di rendere il social «più intimo e privato» e che negli ultimi tempi starebbe anche cercando di ridurre la quantità di notizie politiche presenti sul sito.

Mentre alcuni hanno applaudito la mossa dell’Australia, come a tutto ciò che porta le aziende tecnologiche a ripagare le testate giornalistiche per i contenuti che usano per costruire le proprie piattaforme, altri analisti ritengono che la legge sia una forzatura del governo, che conduce unicamente società a pagare altre società, in particolare quelle di proprietà di uno dei più ricchi e influenti (ex) cittadini di quel governo, Rupert Murdoch.

CIÒ CHE ERA NATA come una buona intenzione, potrebbe finire per rendere ancora più ricchi i ricchi, con pochi benefici per gli altri. Il professore di giornalismo Jeff Jarvis ha definito la legge un caso di «ricatto dei media» e ha detto senza mezze misure che Google ha «ceduto» al «diavolo Murdoch».