Riesce ancora, il teatro, a conservarsi quale attendibile rappresentazione di quanto accade fuori delle proprie mura. In poco più di 24 ore due episodi di cronaca istituzionale, autonomi quanto lontani tra loro, raccontano bene la complessa, contraddittoria, ansiogena situazione del paese. Con l’ombra lunga che li unisce di «complicità», a leggerli i fatti in maniera incrociata. Il primo fatto è l’ormai nota bocciatura senza mezzi termini del ministro Franceschini e del suo decreto legge che voleva fissare nuove norme per i teatri e i loro finanziamenti pubblici. L’altro fatterello istruttivo a sipario aperto, è certo più «leggero» dell’altro. Ed è la visita di cortesia (quasi una legittimazione) compiuta dalla neosindaca di Roma Virginia Raggi alla conferenza stampa del Teatro di Roma per la presentazione (solitamente snobbata dai politici) della prossima stagione. La «stranezza» sta nel fatto che presidente del cda del teatro sia Marino Sinibaldi, che sarebbe dovuto diventare assessore alla cultura se il Pd avesse vinto le elezioni. E che sia toccato proprio a lui aprire gli interventi, lanciando un inedito programma di sensibilità verso le periferie, quando era stato proprio il Teatro di Roma, non molti anni fa, ad abbandonare i «teatri di cintura», rimasti tra i molti orfani veltroniani.

Una invocazione programmatica, quella del presidente, che la Raggi è stata ben lieta di fare propria, elaborando una formula inusuale di marketing sulla «cultura alla porta, e alla portata, di tutti», come un tempo era la bottiglia del latte. Eppure tutti sanno che la scelta della dirigenza attuale di quell’ente è il frutto di un tormentato patteggiamento tutto interno al Pd. Come un’altra eredità «veltroniana» è ora impersonata dall’assessore che i 5Stelle hanno scelto proprio per la cultura, Luca Bergamo, veltronianissimo, noto per aver elaborato a suo tempo una manifestazione di rock e creatività giovanile di nome Enzimi.
Ben più grave ovviamente è l’altro fatto, che tutti i teatri d’Italia ha fatto gioire e poi tremare: il Tribunale amministrativo del Lazio ha annullato con una sentenza molto articolata nella motivazione, quello che è conosciuto come il «decreto Franceschini». Ovvero quel regolamento dei finanziamenti a tutto lo spettacolo dal vivo in Italia, ovvero il Fus, che fa sopravvivere seppure a stento (dopo i tagli di Bondi e Tremonti) teatro, musica, danza e cinema nel nostro paese. La normativa che il ministro dei beni culturali si è voluto intestare, nasceva da una proposta dell’ex ministro Bray, ma era stata rimaneggiata ampiamente dal ministero, allora sotto la direzione di Salvo Nastasi. Tutto l’armamentario di norme, regolamenti e procedure contenuti in quel decreto, oltre a dare nuova nomenclatura ai teatri e agli enti (nazionali, tric, centri produttivi etc) stabilisce regole matematiche su cui molto si è ironizzato, quando si è scoperto che la creatività culturale di una nazione come l’Italia era governata da un algoritmo, che dati alcuni valori di partenza, stabiliva inesorabilmente a quali finanziamenti, tempi, scansione i beneficiati avessero diritto.

Il tribunale amministrativo non si limita a invalidare il decreto, accogliendo l’istanza di un primo gruppo di teatri che avevano promosso il ricorso, ma entra dettagliatamente nel merito. E tra le affermazioni più interessanti c’è, primaria, che un così radicale cambiamento non può essere attuato per semplice decreto ministeriale, ma ha bisogno di una legge. E ancora più nel merito, il Tar fa notare che il contributo pubblico non può basarsi per il 70 per cento sui puri dati quantitativi (serate, giornate lavorative, contributi) e solo per il 30 su quelli qualitativi. E ancora che lo spessore degli enti culturali non può essere determinato dall’ampiezza del proprio fatturato quanto dall’innovazione artistica e dal rinnovamento generazionale: altrimenti perderebbe senso l’intervento pubblico. Roba che, senza essere Cameron, avrebbe potuto far dimettere il ministro e la sua commissione di esperti. Clamorosa è stata invece la risposta del ministro, che volendo apparire quasi più renziano di Renzi, ha deciso che farà ricorso al Consiglio di stato per reiterare il decreto.

E mentre si profilano nuove ondate di sentenze analoghe per i molti altri che hanno fatto ricorso, ha annunciato la frustata punitiva finale: da questo momento i pagamenti di rimborsi e contributi sono sospesi. Molti artisti, enti e compagnie, soprattutto quelli economicamente più fragili, rischiano a breve termine il fallimento. Come la strega cattiva delle favole, Franceschini sceglie la linea dura. Ma dovrebbe sapere che le favole poi vanno a finire in un altro modo.