Nei giorni scorsi l’opinionista di uno dei più diffusi tg nazionali, nel riportare le riflessioni di un prestigioso centro studi sui cambiamenti demografici che, come noto, vedono il nostro Paese in costante declino, ha riferito che, se la parola “migranti” spaventa, allora possiamo dire che l’Italia necessita di “risorse umane aggiuntive”. Sì, perché negli ultimi due anni, mentre noi perdevamo oltre mezzo milione di residenti segnando una netta contrazione rispetto al 2019 (- 0,9%), gli altri principali paesi europei sono invece cresciuti anche se di poco (Gran Bretagna e Spagna +1%, Francia +0,4%. Germania + 0,2%). Quel che colpisce è l’utilizzo da parte del centro studi, e poi l’accettazione senza riserve da parte del giornalista televisivo, del termine “risorse umane” nell’accezione di persone, anzi, l’invito l’esplicito a usare quella locuzione per non urtare la sensibilità ( ? ) di chi non vuol sentire parlare di migranti.

È probabile, mi auguro, che non ci si renda neppure conto di trasferire in campo sociale il linguaggio già acriticamente adottato da molte imprese italiane che, sempre più spesso e senza neppure tradurre dall’inglese, dicono e scrivono Human Resources (HR) in vece che “Personale”. Qui non importa neppure sottolineare la consolidata egemonia linguistica anglosassone quanto la piatta adesione a due rozzi paradigmi culturali. Nella cultura industriale che trae origini dal taylorismo le “risorse umane” sono, infatti, l’ingrediente da mescolare, persino con un certo grado di equivalenza, a quello di altre risorse, le finanziarie, per l’avvio di ogni nuova impresa di mercato. Persone e capitali sono entrambi strumenti nelle mani della direzione, meglio del management, aziendale che deve sfruttarli al meglio per ottimizzare la produzione di beni e di servizi, e naturalmente per la generazione di nuovi capitali e profitti.

Molte imprese italiane, anche quando non sono così arretrate nella considerazione dei propri dipendenti, hanno oggi un dipartimento HR e un responsabile HR. Ma almeno fin qui il termine era rimasto confinato all’interno del perimetro aziendale. Se ora si vuole esportarlo in campo demografico e sociale, chiamando così i migranti, la scelta non può certo dirsi casuale. I migranti, è questo il secondo e il più greve dei paradigmi implicitamente adottati, non sono che braccia da mettere al servizio delle imprese che lamentano la carenza di manodopera. Le “risorse umane aggiuntive” non sono più persone che fuggono per guerra e per fame dai paesi dove sono nati e che il mondo ricco deve accogliere perché porta spesso la responsabilità stessa della loro fuga, ma i nuovi operai e i nuovi impiegati di cui necessitano le nostre industrie per sfruttare al meglio le macchine e gli impianti fissi. Più sfacciata di così non potrebbe essere la riduzione dell’uomo a materia prima della tecnica o, come ci ha insegnato Günther Anders, la sua subalternità al mondo delle macchine, in ultima istanza il suo asservimento al capitalismo.