Vent’anni fa veniva a mancare César, uno dei più significativi ed iconici artisti del ventesimo secolo. Alla sua figura il Centre Pompidou a Parigi dedica ora una retrospettiva – curata da Bernard Blistène e visibile fino al 26 marzo – che analizza il suo percorso in un corpus di oltre cento di opere. La mostra sintetizza il percorso evolutivo dell’artista in forma cronologica a partire dai suoi esordi alla fine degli anni Quaranta – quando entra in contatto con l’ambiente parigino da cui viene profondamente influenzato – fino alla celebre Suite Milanaise realizzata qualche mese prima di morire in occasione della sua personale milanese a Palazzo Reale.

César Baldaccini nasce a Marsiglia nel 1921 figlio, di emigranti toscani di umili origini. Nella città natale compie i primi studi artistici, ma sarà Parigi, dove si trasferisce durante la guerra, a fornirgli gli stimoli culturali che alimentano la sua prima ricerca scultorea. Nella capitale francese conosce e frequenta Alberto Giacometti e Costantin Brancusi, ma si sente estraneo sia alla ricerca plastica condotta dal primo, che all’astrazione formale perseguita dal secondo. È il ferro invece, nella sua grezza brutalità della lavorazione industriale, ad attrarlo, come testimoniano le opere che aprono la mostra realizzate a cavallo tra gli anni Quaranta e i Cinquanta.

Minimi elementi visivi
Lavori come Le coq, Esturgeon oppure Chauve-souris (che rappresentano fuori scala rispettivamente un gallo, un salmone e un pipistrello) o gli antropomorfi L’homme qui marche e Personage assis dimostrano infatti la tendenza a scomporre la figura in elementi visivi minimi riconoscibili impiegando tubi metallici, snodi, cerniere, viti e bulloni modellati grazie alla fiamma ossidrica: sono parti meccaniche prese in prestito dalle lavorazioni industriali o banali residui che la società produce e che diventano, in maniera inattesa, essi stessi oggetto di attenzione. In questo periodo comincia a delinearsi una modalità processuale che diventa fondamentale nella pratica di César: ciò che è periferico, abbandonato o non più utile di per se stesso diventa invece elemento visivo centrale, fondante e costitutivo. Forme semplici, come ad esempio le lastre di ferro o i tondini metallici, nella loro banale geometria imposta dalla logica costruttiva o dalla necessità degli impieghi, smettono di essere semplicemente elementi costitutivi, ma assumono il ruolo di soggetto inconsapevole, poiché sono, per chi guarda, lo specchio visivo – o antropologico? – della società dei consumi.

Sul finire degli anni Cinquanta l’artista, che in passato aveva già impiegato parti automobilistiche raccolte dai campi di recupero, inizia invece ad usare intere auto incidentate, tubi di grande sezione, motori di camion, serbatoi metallici, servendosi dei macchinari impiegati dagli sfasciacarrozze. Le grandi pale meccaniche, che servono ad impacchettare ciò che resta del rifiuto ferroso in semplici parallelepipedi destinati alla fonderia, diventano per lui delle mani capaci di modellare il metallo più resistente: aiutato da fidati collaboratori, con i quali impara ad impiegare i macchinari, César comincia ad accartocciare le automobili e tutto ciò che la società industriale produce e poi espelle, comprimendone l’ampia volumetria in forme semplici, asciutte e pulite. Ecco così prima le Compressions dirigées e poi una serie di Compressions (molte delle quali portano il nome della marca dell’oggetto originale), testimoniate in mostra da esemplari di particolare efficacia espressiva, tanto per la forza brutale del gesto, intatta a cinquant’anni di distanza, quanto per le intrinseche qualità compositive determinate dall’abilità dell’artista di mettere in luce parti di diverso colore o metalli rifiniti in maniera differente.

Come scrive Pierre Restany nel 1967, nell’azione del comprimere – che rifiuta, nel suo agire indiretto, ogni forma di protagonismo e feticismo autoriale – l’artista «incarna il paradosso sociale che non sa quale posto assegnare all’artista all’interno delle sue strutture in divenire. César è testimone intuitivo di una mutazione che il pubblico, nell’essere massa, subisce in modo passivo e cieco».
È lo stesso César, a pochi anni di distanza, a contraddire (ma senza entrare in contraddizione) l’istanza della compressione a favore di una logica complementare: dallo schiacciamento della forma aperta in parallelepipedi egli passa infatti, grazie all’impiego di resine poliuretaniche, alla realizzazione di espansioni volumetriche, forme sculturali in cui una parte materiale straborda, fuoriesce e si manifesta in una forma apparentemente incontrollata. Ecco così le Expansions con blob colorati che escono da casseruole o teiere, ma anche delle enormi colature lucenti realizzate in poliestere e materiale composito che occupano superfici piane o gli spigoli di un tavolo. E se il procedimento concettuale è manifestamente opposto, non lo è quello della necessità esplorativa da parte dell’artista, che non smetterà mai di approfondire e sviluppare le fasi compressive ed espansive dell’oggetto scultoreo, anche nei decenni successivi.

Sfida al già dato
Come scrive in catalogo Bernard Blistène, «César è l’espressione delle contraddizioni di un discorso basato su uno sviluppo che esclude il ritorno al punto di partenza. Egli incarna una tendenza ed il suo contrario, e allo stesso tempo cerca di imporre una logica di sistema in grado di sfidare la prassi modernista: l’ambizione di César è quella di sviluppare, a sue spese, una logica che va contro qualsiasi discorso imposto».

In questa prospettiva non sembrano così in contraddizione le serie di opere ospitate nelle ultime sezioni della mostra, basate sull’idea di ingrandire in dimensione monumentale il seno di una ballerina del Crazy Horse ed il suo stesso pollice. Sono opere che egli fa e rifa, a partire dalla fine degli anni Sessanta, ma senza alcuna ossessione, con colori e materiali diversi. Sono l’emblema del proprio ego maschile (e scultoreo) e dell’assolutamente altro femminile, ma in forma semplice, necessaria e necessariamente in contraddizione.