Quando un evento doloroso colpisce la vita sociale, i singoli individui sono – o dovrebbero essere – più disposti ad assumere e a far propria la dimensione collettiva dei problemi, consapevoli che i mali comuni non possono essere affrontati individualmente. Questa occorrenza, che la pandemia in corso ci ricorda, risultò evidente all’indomani della liberazione in una Italia che veniva da quasi due anni di scontri durissimi, accompagnati da intensi bombardamenti e immani distruzioni e dalla perdita di buona parte delle infrastrutture e degli impianti produttivi. Centri abitati sventrati, fabbriche devastate e campi abbandonati disegnavano in molte parti del paese un paesaggio lunare, abitato da popolazioni affamate, da epidemie e miseria, i cui bambini, spesso malati e errabondi, erano l’aspetto più degradato, ma anche un potenziale concentrato di speranza nel futuro. Salvare i bambini, consentire loro di affrontare i mesi invernali, era un modo per mettere in sicurezza l’Italia del domani, l’Italia a venire.

I filmati del cinegiornale Settimana Incom ci rimandano volti di bambini arruffati, sporti dai finestrini di un treno, che scrutano ad occhi spalancati il mondo nuovo: immagini di un’esperienza inusuale e straordinaria, a lungo perduta nella memoria collettiva. Nell’immediato dopoguerra, infatti, su iniziativa del Pci, decine di migliaia di bambini italiani poveri, orfani e sfollati furono spostati in treno e ospitati per mesi da famiglie di zone meno colpite dalle devastazioni belliche. La storia di questa odissea, già tratteggiata da alcuni saggi e poi dal romanzo di Viola Ardone, Il treno dei bambini (Einaudi, Stile libero, 2019), viene ora ricostruita in dettaglio da un volume impegnato di Bruno Maida, I treni dell’accoglienza Infanzia, povertà e solidarietà nell’Italia del dopoguerra 1945-1948, (Einaudi, pp. 361, € 32,00).

Da Cassino a Bengodi
Impegnato nella costruzione del partito nuovo, il Pci era consapevole che per conquistare l’universo femminile, tradizionalmente più restio alla mobilitazione e più prono alle direttive ecclesiali, era necessario agire sul terreno dell’assistenza. Donne come Teresa Noce, combattente nelle brigate internazionali durante la guerra civile spagnola col nome di battaglia di Estella, erano assai sensibili al tema. Responsabile della commissione femminile del Pci di Milano, Estella usava radunare le militanti in una stanza che aveva al centro una grande stufa di color rossastro. Fu proprio il «gruppo della stufa rossa» a lanciare l’idea di mandare bambini milanesi bisognosi a svernare in Emilia, coinvolgendo le federazioni comuniste locali per trovare famiglie disposte ad ospitarli. Nacquero così i trasferimenti di masse di bambini, quei convogli che il sindaco di Modena Alfeo Corassori chiamò i «treni della felicità».

L’idea non nasceva per caso. Il figlio di Teresa Noce (e di Luigi Longo), Gino, aveva trascorso degli anni a Ivonovo, a nord di Mosca, nella famosa Casa internazionale d’infanzia intitolata a Elena Stasova, grande sostenitrice dell’emancipazione femminile, una struttura che aveva ospitato i figli del movimento comunista internazionale, da Mao a Togliatti, a Tito, a Dolores Ibarruri. Ma poi, molto aveva contato la tradizione solidaristica risaliente del movimento operaio e socialista, segnata da episodi di bambini assistiti e trasferiti altrove in occasione delle proteste di massa nelle campagne parmensi (1897) o degli scioperi negli impianti siderurgici di Terni (1907). Alla fine della prima guerra mondiale, inoltre, ben 80.000 bambini viennesi a rischio di non passare l’inverno del 1920, furono trasferiti con i cosiddetti «treni della fratellanza» in vari paesi europei, tra cui l’Italia.

Il successo dell’accoglienza generosa riservata in Emilia ai bambini milanesi (ma anche torinesi e romani) spinse poi ad estendere l’iniziativa. Al V congresso del Pci, nel dicembre 1945, il delegato Raul Silvestri aveva denunciato, suscitando una forte impressione, la tragica situazione di Cassino e del frusinate, una zona di guerra tra le più desolate perché proprio lì, lungo la linea Gustav, aveva a lungo stazionato il fronte. Ai trentaquattro comuni distrutti si accompagnava la difficoltà di riprendere le coltivazioni agricole per la presenza micidiale di migliaia di mine e per la malaria, figlia della «palude maledetta».

Il risultato era che i bambini vivevano «come piccoli cani randagi» sfamandosi con quel che trovavano e indossando le giacche dei soldati morti: «Stanno sul bordo delle paludi e giocano con i proiettili inesplosi trovati per terra, che spesso però esplodono. Intorno a loro il fango, e le zanzare…».

L’invito a «strappare i bimbi di Cassino da quell’inferno» fu raccolto. Accompagnati da donne dell’Udi e da crocerossine, i bambini del Cassinate furono avviati in treno verso il nord dopo essere stati lavati, vestiti e soprattutto sfamati: uno di loro cui venne chiesto se era contento di partire rispose di si, «perché a Reggio si mangia sempre». L’incontro con l’abbondanza di cibo, nella percezione infantile è stata la vera cesura tra il mondo vecchio, fatto di stenti, e quello nuovo, percepito come un paese di Bengodi.

Poi, dopo Cassino, fu la volta dei bambini di Napoli, una città devastata dai bombardamenti, con 60.000 vani inagibili, e duramente travagliata dall’epidemia petecchiale e dal vaiolo. Furono allora di nuovo organizzati treni affollati e trovate famiglie ospitanti disponibili, anche se ormai affaticate per la nuova incombenza, e si registrarono di nuovo incontri memorabili col cibo: come quello di Pasquale, bimbo napoletano, ospite a Crespellano, che voleva solo maccheroni e finito il piatto, metteva in tasca quelli avanzati in tavola, conservati per la sera.

Ora però, nel 1947, la guerra fredda era iniziata e nel conseguente mutamento di clima politico, la solidarietà verso l’infanzia divenne oggetto di scontro ideologico. I sacerdoti, sostenitori dei soccorsi alle famiglie e della rete cattolica di istituzioni di sostegno e di rifugio, iniziarono a predicare contro i trasferimenti dei bambini operati da «nemici della fede», e anche il prefetto di Napoli cercò di ostacolare la partenza dei convogli. Vennero rispolverate dicerie sui bambini inviati in Siberia (leggenda che originava dai Niños de Rusia, i circa 3000 bambini spagnoli mandati dalle autorità repubblicane a svernare in Russia nel 1937-38) nonché quella dei «comunisti che mangiano i bambini».

Una ripresa negli anni Cinquanta
In questo clima, segnato dall’affermarsi dell’autoritarismo scelbiano, il temporaneo trasferimento in altre famiglie dei bambini bisognosi si esaurì: sarebbe ripreso a tratti, di fronte a eventi cataclismatici come nel 1951 per le alluvioni in Calabria e Polesine, oppure in occasione degli scioperi alle Officine Reggiane o degli scontri a San Severo, ma presto anche i comunisti finirono per abbandonare quel campo di iniziative.

Si esauriva così un’esperienza unica, che aveva visto il Pci giocare le sue carte su un terreno, quello della solidarietà comunitaria, parallelo a quello della carità cristiana: l’assistenza tornava allora ad essere prerogativa esclusiva della Chiesa, sostenuta ora dal finanziamento pubblico, nonché dagli aiuti americani del piano Marshall. La guerra fredda aveva colpito i «treni della felicità».