Quella sera, in Piazza Grande, pioverà. Nessuna precipitazione atmosferica, ci si augura. Ma, sul grande schermo, rovesci intermittenti d’un enigmatico magma nerastro, forse extraterrestre : una serie di splash dal cielo, l’equivalente marziano, nella nuova, stramba serie-Arte di Bruno Dumont, delle classiche torte in faccia. Coincoin et les Z’inhumains – viavai tra terra e spazio, tra al di qua e aldilà, con grottesche repliche dell’Invasione degli ultracorpi (1958) di Don Siegel e finale cerchio circense alla 8 e mezzo –, che il 71° Festival di Locarno proietta in prima assoluta, premiando il 4 agosto il suo regista con il Pardo d’onore, è il seguito di P’tit Quinquin, mini-serie (2014) di Dumont per Arte, dove verrà trasmesso in settembre. Due Grands Prix a Cannes, L’humanité (1999) e Flandres (2006), dopo l’impressionante esordio con La vie de Jésus (Prix Jean Vigo 1997), Dumont, terzo di quattro figli nel Nord di provincia, infanzia cattolica, studente anonimo dei salesiani, cinema il sabato sera al ‘Flandria’ (C’era una volta nel West…), ha suscitato altri soprassalti, dopo Twentynine Palms (2003), Hadewijch (2009), Hors-Satan (2011), con Camille Claudel 1915 (2013), sui giorni della scultrice in manicomio, dove per la prima volta il regista impiega un’attrice professionista, una star, Juliette Binoche, che riprenderà in Ma Loute (2016), satira sociale burlesca con Fabrice Luchini e Valeria Bruni Tedeschi. Altro giro di boa, l’anno scorso, a Cannes, con il musical mistico-punk, da Charles Péguy, Jeannette, l’enfance de Jeanne d’Arc, promosso dai Rendez-vous di Unifrance e proiettato in Italia al torinese ‘Sotto18’. Ancora una volta, cinema viscerale, esasperato, radicale, caldo/freddo. Niente sfumature. Consenso non consentito. « È la pittura che mi ispira, prima di tutto : mi ha insegnato a scrutare i paesaggi come volti, e viceversa. Tanto che in un film ho reso live il Courbet vaginale di L’origine du monde… ». Alto, elegante, sguardo chiaro e diretto, il regista, 60 anni lo scorso 14 marzo, risponde alle domande dopo l’anteprima parigina dell’intera serie Coincoin et les Z’inhumains (4 puntate, una mattinata di reclusione al Petit Odéon) : occasione per rimettere a fuoco il suo ‘sistema-cinema’.

Nel suo cinema, Bruno Dumont, nulla cambia, ma tutto è ogni volta diverso.

Sì, stessi paesaggi, temi, attori: con qualche new entry, comunque. I temi, forse, sono i più permanenti. Il nuovo, sempre più, è la comicità, che dà una frullata a quel che prima era il tragico.

Il comico, fin dal primo film, è una molla della narrazione.

Fa da contrappunto, è un deragliamento. È il dramma che va fuori strada : la buccia di banana posata una volta qua una volta là. È una comicità che vien da tutto il mio cinema passato, una forma di umorismo che si è costruito sul cadavere dei miei film precedenti. È sempre stato per me un succedaneo del dramma, fin da L’humanité, dove dietro ogni violenza c’era una piroetta : serve a farci passare con scioltezza attraverso i momenti gravi.

Altra costante, il ricalco dei generi e la loro mescolanza : qui, che gioia prova?

È proprio la loro mescolanza che mi conquista. Io non faccio che sovrapporli, per mostrare come funzionano insieme. Già in L’humanité rivisitavo un thriller fatto di mélo e di commedia. La coesistenza del comico m’appassiona : il mondo è fatto di cretini e geni, di santi e malandrini, tutti gomito a gomito.

La sua predilezione per l’indagine poliziesca : maligna passione per i clichés ?

La funzione del cinema è di farci meditare, riflettere : su noi stessi, su tutto. Occorre perciò far esplodere le convenzioni, trasgredirle per farle apparire. L’indagine di polizia è un topos, si sa già quel che succederà, non ce ne importa più nulla. Nei miei film diventa una forma di irriverenza, ma su sé stessa. È un modo, papale papale, di prendere il cinema in giro.

E le storie ?

Mi piace sovrapporne in sovrannumero : come in La Loute, dove ho miscelato in un mélo languoroso una serie di derive tragiche, incestuose e antropofaghe. Le storie normali non mi interessano più. Il cinema è intrigante : bisogna intrigare, intrigarsi. Fa parte della confezione dei fatti, alcuni limpidi, altri meno.

È una richiesta d’interazione allo spettatore ?

Il cinema è un gioco con lo spettatore : con il suo universo, la sua psicologia, la sua biologia. Si passa il tempo a dargli ceffoni, a riprenderlo, a spostarlo… Lo spettatore completa quel che lasciamo d’inconcluso o oscuro. Il film fa appello alla psicologia del pubblico: e io me ne sento esonerato. Sono affascinato dalle capacità d’articolazione dello spettatore, dalla sua facoltà di riempire vuoti, di proiettare senso. Il pubblico fa un lavoro enorme.

Lo spettatore non è anche un rischio ?

È il rischio principale del film. Arriva con una cultura del cinema che gli serve per assaggiare e apprezzare il film. Appassionante la sua riduzione del ruolo dell’autore, delle sue intenzioni. Io dovrò limitarmi a costruire il film in una forma incompleta, che permetta allo spettatore di entrarvi e trovarvi finalmente le corrispondenze che lo attendono.

Il Nord è il recinto e lo stampo del suo cinema : un limite ?

Impossibile ritrarre l’uomo nella sua universalità, io sono del Nord, vedo e conosco gente del Nord. Il cinema è metafora : il locale diventa metaforico. Il cinema è trasfigurazione, occorre che ci sia qualcosa che diventi altra cosa. Riflessione che è anche alla base della pittura. L’astrattismo è nato da questo pensiero sull’influenza della figura : è tentativo di raggiungere il fondo. Porto spesso a esempio una tela di Manet : se togli il personaggio, resta il fondo, già pittura astratta. Il fondo è l’infinito, cioè l’enigma : sia nella pittura che nell’arte in generale. Alla Biennale di Venezia, quando l’ho visitata, mi ha colpito la totale mancanza di tentativi, di coraggio, di choc. Penso si debba scuotere lo spettatore, modificarlo, non lasciarlo com’è.

I suoi Carnevali felliniani ?

È sempre il Nord  della Francia ! Io sono di Bailleul : una tradizione di processioni e mascheramenti. Come nel contrappunto comico-tragico, sotto la maschera, sotto l’esagerazione, l’ispessimento dei tratti, c’è la sottigliezza : l’insieme sei tu, il tutto è il film.

Cinema come carnevalizzazione della realtà ?

Apollinaire diceva che gli artisti devono essere disumani : son d’accordo. Bisogna essere sporchi, far vacillare quel che è perfettino. Credo assolutamente nel cinema come purga e catarsi. Non frequento molto le sale, ma quando ho visto Dogville di Lars Von Trier, che meraviglia, specie il finale : va al di là di tutto quel che si vede oggi. I film che ci circondano sono specchietti del reale : e tutto è liscio, gentile. Al cinema, ho bisogno di terremotarmi.

Per questo ricorre di norma a attori non professionisti ?

Ho sempre fatto d’un contadino un contadino e di un artista un artista. L’artista Juliette Binoche mi ha aiutato a delineare l’artista da lei interpretata in Camille Claudel  1915. M’attrae, e m’appassiona, nell’attore professionista quel che evoca nella testa della gente. Ancora una volta, è lo spettatore che m’interessa, l’imprevedibile che vi aggiunge. Se scelgo un attore molto popolare, è proprio perché è molto popolare. Basta inquadrarlo, anche se non fa nulla … Ci sarà sempre qualcuno che vede quel che fa.

Il sesso, nei suoi film : l’han talora criticato, perché sfiora, nel suo modo di filmarlo, l’animalità

Quel che m’interessa nell’essere umano è l’animale. Il rapporto dello spettatore con il cinema è il rapporto d’un essere per così dire umano, civilizzato con un’esperienza dell’animalità. C’è in noi una parte animale che va filmata e mostrata. Nei film, il confronto con l’animalità è una necessità. Un cinema umano non mi dice niente. È la critica che rivolgo ai film d’oggi, molto umani, gentili, lastricati di buone intenzioni, ma che non servono a nulla.

 

Il Pardo d’onore del 71° Festival di Locarno (1-11agosto) a Bruno Dumont, accompagnato da una mini-personale e dalla prima, in Piazza Grande, di Coincoin et les Z’inhumains, corona il lavoro ventennale del regista francese, caratterizzato da uno stile spoglio, abitato da attori non professionisti. Per Carlo Chatrian, direttore artistico del festival svizzero, che ha incoronato l’anno scorso Jean-Marie Straub e Todd Haynes, « Bruno Dumont è uno dei registi che incarnano il meglio del cinema del XXI secolo. I suoi film han radici profonde nella tradizione filosofica, letteraria e cinematografica e, insieme, guardano al futuro : saggi sull’uomo, sull’assurdo dell’esistenza, ma anche sull’eterna questione del male, invitano a non abdicare mai dalla riflessione ». Dumont, i suoi film e il Premio sono la punta di diamante di una consistente rappresentativa del cinema francese, sostenuta da Unifrance, con una bella delegazione in cui sono annunciati anche Jean Dujardin, Mélanie Thierry, Nicolas Philibert, Virgil Vernier.