Studioso dei fascismi europei e della deportazione verso i campi di sterminio nazisti, Brunello Mantelli insegna Storia dei conflitti internazionali all’Università della Calabria.

Professor Mantelli, partiamo dalle parole di Salvini sui rom: a chi studia da trent’anni fascismo e razzismo, che effetto fanno?
La prima reazione è quella di dire: «sta tornando il fascismo». In realtà, a ben guardare, il fascismo fu però una sorta di imbuto per il quale passarono culture antidemocratiche ed autoritarie che negli anni Venti e Trenta, in Italia come in Germania, si trasformeranno in regimi. E oggi è alla comparsa, e in parte alla ricomparsa di simili culture che si sta assistendo nel nostro paese. Pensiamo al cosiddetto «sovranismo», in realtà si tratta di vero e proprio nazionalismo e sappiamo bene a cosa condusse tutto ciò. Allo stesso modo, la sola idea di schedare gli esseri umani in base alla loro «etnia», parola che si immagina più presentabile del termine «razza», rimanda esplicitamente al più terribile passato europeo e del nostro paese. Ciò a cui si sta assistendo oggi rappresenta perciò una sorta di riemersione di quel rimosso della storia nazionale, di quelle culture organicistiche e antidemocratiche che il fascismo veicolò e trasformò in una macchina statale.

Gli stereotipi sui rom cui attinge anche la destra al governo sono tra i più violenti e aggressivi.
Infatti, con la progressiva scomparsa dei mestieri nomadi, coloro che li esercitavano hanno finito per essere spesso equiparati a persone che vivono di espedienti. È un paradosso se si considera ad esempio che quelli che qualcuno dipinge come «ladri di bambini» sono gli stessi giostrai cui per generazioni i genitori affidavano felici i loro piccoli perché passassero un pomeriggio di festa. Oggi si oscilla tra le tesi del razzismo differenzialista che fa breccia anche a sinistra, «quelli sono così», punto e basta, e lo smantellamento delle politiche di mediazione culturale e di dialogo costruttivo, equiparate ad «inciucio e corruzione», che sono invece le uniche che in un paese civile potrebbero migliorare le cose.

Il «prima gli italiani» non è in realtà una novità visto il passato coloniale del nostro paese, eppure nessuno sembra ricordarlo.
Il problema non riguarda la storiografia, visto che si contano molti studi importanti dedicati al razzismo e al colonialismo fascista. Piuttosto è nella cultura diffusa che sembra non esserci alcuna consapevolezza del nostro passato coloniale. E su questa base si sono andati costruendo i nuovi stereotipi. Anni fa un collega afroamericano che lavorava in Italia mi fece notare inorridito come sui nostri canali televisivi passassero in continuazione spot pubblicitari che negli Stati Uniti, non certo un paese esente dal razzismo, non sarebbero mai apparsi. Rappresentazioni grottesche o mercificanti di uomini e donne nere o delle donne più generale.

I sondaggi indicano che sono in molti, anche tra gli elettori di centrosinistra, ad approvare la «linea-Salvini».
Stiamo correndo verso un punto di non ritorno e senza una sufficiente consapevolezza del pericolo. Non mi convince la lettura un po’ semplicistica per cui se la sinistra non fa più la sinistra, «il popolo» si butta a destra. Questo dice forse qualcosa della situazione, ma non spiega l’insieme e la portata del problema. Piuttosto, credo vada considerato il ruolo decisivo giocato dagli imprenditori politici dell’intolleranza, la loro capacità di trasformare, e camuffare, i discorsi da bar in interventi «politici». Inoltre, sul fondo emerge un tema: sono più di vent’anni che ci siamo abituati a veder contrapporre la cosiddetta «società civile» alla politica. Sia chiaro, combattere la corruzione è importante, ma non si deve dimenticare come i vecchi partiti di massa contribuivano alla formazione dei cittadini. Senza tutto ciò, all’inverso, dalla «società civile» si levano gli umori su cui specula Salvini.

Vent’anni di berlusconismo hanno reso il paese ciò che è ora. Il «prima gli italiani» che società annuncia?

La «cifra» dell’Italia di oggi può essere riassunta nel crescente individualismo, eredità proprio della stagione del Cavaliere. Ma anche in prospettiva mi sembra questa la sfida più importante, specie per la sinistra. Perché, come diceva Don Milani, «politica è uscire insieme dai problemi, uscirne da soli è solo egoismo».