Rivivere l’esperienza attraverso una percezione multisensoriale che la riattiva, quell’esperienza: è l’obiettivo di tutta l’arte partecipativa, col suo picco negli anni sessanta e settanta, ma non c’è da stupirsi che la Tate Modern continui a perseguirlo quotidianamente. I suoi spazi sono ideali per sviluppare relazione e interazione, superando la logica espositiva del museo tradizionale a favore di un’ipotesi collaborativa: era questa l’idea dei suoi architetti Herzog & de Meuron, che nel 2000 mostrarono al mondo la trasformazione di una ex centrale termoelettrica in un museo d’arte moderna; ed è questa l’idea del Blavatnik Building, che nel 2017, ad opera dello stesso studio, ha trasformato la Switch Tower in uno spazio d’istallazione quanto più libero possibile.
Spazio relazionale per definizione è soprattutto la Turbine Hall, cui si accede scendendo sotto il livello del piano terra, che ha ospitato il ragno di Louise Bourgeoise ed è stata solcata dai tagli nel pavimento di Doris Salcedo: spazio evocativo di un tempo che fu, la civiltà industriale, e di un altro a venire, una città del futuro, ideale per le corse dei bambini e il ciondolio dei visitatori, con i suoi 35 metri di altezza e oltre 3000 metri quadrati di superficie. Un po’ capannone e un po’ metropolis, la Turbine Hall accoglie ora l’istallazione di Tania Bruguera dedicata al tema politicamente più urgente del nostro tempo: la migrazione (fino al 24 febbraio). Recentemente incarcerate per tre giorni per aver manifestato contro il decreto 349 del governo cubano, che prescrive un permesso ministeriale per ogni tipo di performance e istallazione negli spazi pubblici, Bruguera è ora un simbolo della lotta per la libertà di espressione, cui va tutta la nostra simpatia; ma già al momento dell’istallazione alla Tate la sua ricerca era volta a dare voce a chi non ne ha.
Calore sprigionato da una folla di corpi
S’intitola con un numero e consiste di due spazi distinti: un enorme tappeto in fondo alla Turbine Hall e una piccola stanza a lato. Il tappeto è totalmente anonimo, uno spazio idealmente neutro, che si calpesta rigorosamente senza scarpe, e dove i bambini possono scorrazzare e gli adulti fare ginnastica: nessuno realizzerebbe che si tratta di un’istallazione se non ci fosse un cartello sulla parete adiacente a farcelo sapere. Lì apprendiamo quello che non vediamo, e che purtroppo non vedremo: grazie al calore sprigionato da una folla di corpi soprastanti, il tappeto farebbe comparire su di sé il volto gigantesco di Yousef, uno dei tanti migranti siriani approdati a Londra durante la recente, disperatamente interminabile guerra civile di Assad contro il suo popolo. L’effetto, provocato da una vernice speciale, potrebbe essere potente, ma è purtroppo improbabile che lo spettatore riesca a verificarlo, perché ci vuole davvero una folla per metterlo in atto: tanto che all’inaugurazione fu invitata l’intera comunità del quartiere. Peccato, perché quella che avrebbe potuto essere un’esperienza sensoriale quasi magica si traduce in un senso di frustrazione e vuoto. Senza che si perda la metafora costitutiva dell’istallazione, lo spazio aperto come luogo della migrazione, dove si verificano simultaneamente perdita delle origini e possibilità dell’incontro, movimento e détournement; ma senza neppure che la metafora venga abitata, con l’evocazione della storia individuale che s’impone sulla collettività anonima.
Non resta che passare nella sala accanto, cui si accede dopo che un addetto ti ha stampato sul polso o sulla mano un timbro con un numero (il mio era 10145233): pratica misteriosa se non si legge la spiegazione sul cartello, che ci fa sapere che il numero è quello dei migranti morti durante le migrazioni e perciò continuamente aggiornato (ed è questo il titolo dell’opera, sempre diverso giorno dopo giorno). Ridotti a numero, come in un lager, quei morti c’indignano, ma di loro non sappiamo niente: né la vita né la sofferenza, né la solitudine né il nome. Per incontrarli Tania Bruguera ci costringe a piangere: nella stanza non c’è nulla, tranne un invisibile lacrimogeno, che induce tutti a smorfie di fastidio o di dolore, fino al pianto. L’esperienza della sofferenza più nascosta e meno condivisibile, suggerisce l’artista cubana, non potremo mai veramente capirla, a meno che non la viviamo effettivamente noi stessi; ma possiamo ripercorrerla mentalmente, fermandoci a riflettere su quella distanza che ci ha fatto perdere l’umanità e ideologizzare la materia. Tanto gli inospitali quanto gli accoglienti non si accorgono più delle persone e ne fanno manifesti ideologici, presi dalle loro battaglie per la visibilità, il potere, la propaganda e la retorica: c’è bisogno perciò di una violenza subita per riconoscere la violenza cancellata. Empatia e attivismo, per andare oltre noi stessi e cambiare la realtà: «vogliamo che le persone lavorino insieme e capiscano che tante cose sono invisibili», ha detto in un’intervista alla BBC.
Richiamo al «Manifesto de Arte Útil»
«L’arte non fa succedere niente in un modo che fa succedere qualcosa», twittava un personaggio di Ali Smith, un critico d’arte, cui l’Arte Útil di Bruguera sembra fare da eco, nella speranza di «trasformare la vita delle persone» – come recitava il Manifesto de Arte Útil dell’artista argentino Edoardo Costa nel 1969, un anno dopo la nascita di Tania: tutto molto bello poeticamente, ma anche molto ideologico anziché estetico, soprattutto con l’invito a «sostituire autori con iniziatori e spettatori con utenti». Se l’obiettivo è l’incorporazione dell’altro nella nostra identità, nella consapevolezza che a definirci non è quello che siamo, ma ciò da cui siamo circondati, qui Tania Bruguera si arrende troppo facilmente all’idea che la Turbine Hall sia uno spazio della fisicità sbizzarrita cui contrapporre lo sforzo della mente: attratti dal tappeto e feriti dal pianto, restiamo lì, a gironzolare intorno all’altro senza mai davvero incontrarlo, interiorizzando o razionalizzando tutto invece di metterci in gioco. Tradurre l’esperienza altrui nella nostra dovrebbe sviluppare un’etica dell’ospitalità, fatta di mescolanza e scambio; ma quando l’idea soffoca l’esperienza, intelligenza e sentimento restano inesorabilmente inconciliabili. Fa freddo, nella Turbine Hall.