Brucia il Portogallo, fiamme devastanti e immagini apocalittiche, ancora morti, tanti, 41, che si aggiungono ai morti degli incendi di quest’estate, una settantina circa. In un anno sono stati distrutti più di 200mila ettari di foresta, 54mila solo domenica scorsa. Siamo ad ottobre ed è ancora estate, e poi la pioggia che non arriva, solo poche gocce ma che non bastano a un territorio esangue, la peggiore siccità degli ultimi vent’anni.

SI SCATENANO LE POLEMICHE contro il governo, si dice che le responsabilità se le deve pur prendere qualcuno, e allora tutte le attenzioni si concentrano sulla ministra degli interni Constança Urbano de Sousa. Sì perché la reazione è stata tentennante, anzi, peggio, il piano di azione contro gli incendi si è concluso proprio a inizio ottobre quando molte delle forze in campo erano già state smobilitate e, nonostante le previsioni avessero evidenziato il rischio imminente, poco è stato fatto.

Ma ha senso ridurre il tutto, come buona parte dei media stanno facendo, a come pompieri, Guarda Nacional Republicana, Protezione civile e Governo hanno gestito l’emergenza? Il problema è di lungo periodo, perché il territorio portoghese è sfruttato al suo massimo da colture intensive, da una parte, e abbandonato a se stesso dall’altra. Lo scorso febbraio il ministero dell’agricoltura ha di fatto congelato l’ulteriore estensione delle piantagioni di eucalipto, tra le principali cause del rapido propagarsi degli incendi, ma le polemiche non sono mancate perché, dicono alcuni, è sacrilego mettere i bastoni tra le ruote a un’industria che nel 2015 ha reso quasi 3 miliardi di euro.

La commissione di inchiesta istituita dal Parlamento dopo la tragedia di Pedrogão di quest’estate non ha solo evidenziato lo scarso coordinamento tra le forze mobilitate per domare le fiamme, ma ha anche spiegato cosa si sarebbe dovuto fare per mettere in sicurezza tutto il paese. Qui il quadro delineato è inquietante, perché lontano dalle città ognuno fa un po’ quello che vuole: proprietà incolte e abitazioni costruite senza rispettare i minimi criteri di sicurezza (la legge stabilisce in 50 metri la distanza minima dalla foresta). E poi c’è la mancanza di lavoro per cui le zone dell’interno sono perlopiù spopolate o abitate da chi non ha risorse economiche per curare i propri appezzamenti. Insomma una bomba ad orologeria pronta a esplodere con frequenze sempre maggiori.

POCHI OGGI RICORDANO che il premier socialista António Costa ci ha provato a cambiare le cose, e che a luglio è stata approvata una timida riforma. Ci vuole tempo certo, ma per la prima volta è stato istituito un catasto e nell’ultimo Orçamento, la legge di bilancio, sono stati stanziati più soldi per la protezione del patrimonio forestale. Bloco de Esquerda (Be) e Partido Comunista Português (Pcp) avrebbero voluto si facesse di più ad esempio introdurre ulteriori limiti alla produzione dell’eucalipto e dar vita un Banco publico per le terre incolte: chi non le usa deve essere obbligato ad affittarle a chi le vorrebbe usare. Ma si sa ciascuno è re a casa sua e quando lo stato si vuole immischiare tutti si lamentano. Occorrerebbe poi istituire dei corridoi verdi, autostrade di piante più resistenti, come le querce, che si frappongano come pareti stagne tra un campo e l’altro.

IL MALGOVERNO in tutto questo c’entra, ma fino a un certo punto perché alla fine è una questione meramente politica. Una divisione tra chi crede che un intervento pubblico troppo invadente sia solo un elemento controproducente – limitarsi quindi alla sicurezza – e chi invece sa per esperienza che in alcuni aspetti senza la mano regolatrice dello stato è difficile difendere il bene collettivo e, quindi, più o meno direttamente, anche quella del privato.