Ottomila casi al giorno con un tasso d’incidenza del 10%, solo il 40% della popolazione vaccinato, terapie intensive al collasso e, ieri, il quarto incendio in un reparto Covid chiusosi con la morte di due pazienti e l’intossicazione di un’altra decina di malati nell’ospedale di Ploiesti, cittadina a 60 km a nord di Bucarest.

La quarta ondata del Covid ha travolto il già traballante sistema sanitario rumeno, costringendo il sottosegretario Raed Arafat, responsabile della gestione della pandemia assieme al medico militare Valeriu Gheorghita, a chiedere a gran voce un supporto all’Unione europea, appello cui hanno risposto l’Italia e l’Olanda inviando bombole ad ossigeno e medicinali, e Polonia, Ungheria e Germania che hanno accolto i malati gravi in esubero mettendo a disposizione i propri posti letto. Cosa succederà se anche in questi paesi dovesse crescere la curva dei contagi (come sta già succedendo in Germania) non è dato ancora saperlo, ma è prevedibile: la Romania dovrà contare sulle proprie forze. Ma quali forze?

L’INCIDENTE DI PLOIESTI in un ospedale che non aveva a norma il sistema di allarme anti-incendio, è il quarto di questo tipo dall’inizio della pandemia, dopo che roghi erano già scoppiati nei nosocomi di Piatra Neamt (dieci morti), di Costanza (7 morti) e al Matei Bals di Bucarest (il peggiore, 17 morti) e testimonia l’arretratezza di diverse strutture sanitarie del paese balcanico, molte delle quali senza alcuna manutenzione per anni e assolutamente impreparate a fronteggiare una pandemia. Così come impreparato si è dimostrato il sistema politico alle prese con l’ennesima crisi di governo cominciata in estate e che va avanti ufficialmente dal 7 settembre, giorno della sfiducia all’ex premier Florin Citu, il cui mandato è durato poco più di otto mesi. Sono stati ben 6 i ministri della Salute che si sono succeduti durante la pandemia, un dato che la dice tutta sulle oggettive difficoltà di gestire al meglio la situazione intraprendendo una condotta decisa e stabile.

L’ESTATE AVEVA ILLUSO la popolazione (e la politica) che il peggio fosse passato. Il bassissimo numero di contagi e una partenza promettente della campagna vaccinale alla fine della primavera, avevano fatto sentire il paese al sicuro. Il brusco rallentamento della vaccinazione e la venuta dell’autunno hanno fatto ripiombare il paese nello sconforto, costringendo le autorità a reintrodurre (ma quando ormai la situazione era già sfuggita di mano) le restrizioni e convincendo parte della popolazione (la crescita del 10% si è avuta nelle ultime due settimane di ottobre) che il vaccino poteva essere la soluzione.

Da sempre molto influente sulle scelte della società, la chiesa ortodossa non ha certo aiutato le istituzioni nell’affrontare la crisi sanitaria. Il patriarca Daniel, infatti, non si è mai schierato, mantenendo una posizione ambigua nei confronti della vaccinazione, mentre molti alti prelati hanno chiaramente invitato la popolazione a non vaccinarsi, a non iniettarsi il ‘diavolo nelle vene’, di lasciarlo fare prima ai parlamentari e cose del genere, senza ricevere in pratica alcun provvedimento disciplinare per questo ostracismo.

DI POSITIVO C’È che i numeri sono in calo rispetto ai 15-20 mila casi e ai 500 decessi giornalieri di metà fine ottobre, quando sembrò di rivivere la drammatica esperienza di inizio pandemia in Italia con sale mortuarie strapiene e corpi abbandonati nei corridoi degli ospedali. E c’è anche il fatto che la crisi politica sembra stia trovando uno sbocco nel governo ibrido che stanno per formare liberali e socialdemocratici, un vecchio classico rispolverato e ‘sponsorizzato’ dal presidente Klaus Iohannis, molto contestato sia all’interno del paese che dalla stampa estera (in particolare quella tedesca che segue molto da vicino le vicende del presidente di origini teutoniche). Ma la pandemia ha messo impietosamente in evidenza le gravissime carenze di un sistema sanitario lontano anni luce da quello europeo, che ha sofferto una gestione basata su gare d’appalto truccate e corruzione per anni e che a partire dall’entrata della Romania nell’Unione europea, ha visto ben 85.000 medici abbandonare il paese alla ricerca di una carriera migliore e più remunerativa all’estero. Due fattori che hanno messo in ginocchio un intero sistema e sufficienti a spiegare non solo l’ennesima, evitabile (sarebbe bastato un banale allarme anti-incendio) tragedia in un ospedale, ma anche il timore che una nuova impennata di casi tramortirebbe il paese.