Cosa spinge il piccolo Yusef a preoccuparsi tanto dell’amico? Gli vuole bene, e sa che lì dove sono non è facile cavarsela. La mattina aveva male alla testa, e da allora giace immobile mentre gli adulti sembrano non curarsene. Forse è stata la doccia gelida inflitta come punizione il giorno prima da uno degli insegnanti perché i ragazzini litigavano? O l’alimentazione di sbobbe immangiabili? O il freddo del riscaldamento che non funziona mai e che gela serrature e vetri in quel paesaggio nevoso? Non siamo in un carcere per minori e nemmeno in un orfanotrofio, quello in cui la storia di Brother’s Keeper – nella sezione Panorama – si svolge senza uscire mai – quasi come un Buzzati solo che qui si aspetta l’ambulanza – è un collegio turco in Anatolia, la regione a maggioranza curda, parola che non si può nemmeno pronunciare come la lingua: vietata, sciolta nel turco che è la sola con cui si insegna ai ragazzini raccolti dai villaggi che – ma questo è fuoricampo – in anni di repressione e violenze sono stati massacrati, costretti alla miseria, mentre le scuole che provavano a conservare la lingua curda le ha chiuse la polizia.

SE ALL’INIZIO viene da pensare ai primi film di Kiarostami coi ragazzini che invano cercano di attirare l’attenzione dei «grandi» genitori o maestri, molto presto nei suoi dormitori (senza le battaglie coi cuscini di Vigo) e nel cortile delle adunate in cui si celebra la grandezza dell’istituto, Ferit Karahan rivela una traiettoria molto diversa. In questo microcosmo tutti sono partecipi all’esistente, anche chi ne è la vittima principale, i ragazzini, e cerca di cavarsela con sotterfugi, scappatoie, omissioni per non soccombere. Dal preside – che somiglia a Erdogan – agli insegnanti quasi tutti maschi tranne una che fatica a farsi ascoltare – nel sistema di controllo e repressione messo in campo dal collegio si ritagliano uno spazio, compresi appunto i ragazzi, tra i quali oltre alla necessità di rimanere in piedi ci sono quelle dinamiche speculari ai poteri: violenza, sopraffazione, rivendicazione di un «ruolo» che permette ogni sorta di sopruso sugli altri.

Gli insegnanti puniscono, picchiano, i ragazzi apprendono questa modalità e la ripetono tra loro mentre al tempo stesso inventano modi per sfuggirvi. È lo schema «classico» di una struttura totalitaria come questa che il regista, all’opera prima, riscrive con lucidità ispirandosi al proprio vissuto – sei anni in una scuola così.
La sua tragedia è una commedia delle parti in cui davanti al lettino di una improbabile infermeria senza medicine né medici, su cui giace il bimbo incosciente, ciascuno dei «responsabili» omette le proprie responsabilità mentre si cerca un colpevole di quanto è accaduto, qualcuno su cui addossare tutto , in modo liberatorio mimetizzando così corruzione, cattiva amministrazione, incapacità.
La neve impedisce all’ambulanza di arrivare, non c’è segnale telefonico, nessuno ha le catene. Nei paradossi di quella situazione si può vedere un riferimento alla Turchia di oggi, a una condizione in cui la propaganda – nazionalismo e patriarcato nel senso del patriarca a cui si deve gratitudine – offuscano le questioni reali, e l’oppressione è il solo mezzo di risposta sociale. E in modo più astratto e generale agli effetti della paura sulle relazioni umane.

RISPETTO al «tema» Karahan cerca continuamente punti di fuga formali e narrativi con cui riformulare l’immagine del film «politico» tra sentimento, divagazioni improvvise, smascheramenti, sorprese da giallo – in cui quel potere si rivela nella sua assurda e tronfia incapacità.