«Vorrei ritrovare tutto come l’ho lasciato». Con questa frase perentoria Ibrahim, predicatore islamico bosniaco, ex combattente invalido, appartenente ai berretti verdi all’epoca della guerra contro i serbi, si accinge a lasciare i suoi tre figli per ventitré mesi, il tempo di scontare una condanna per terrorismo. Il proselitismo sul fronte siriano, lo ha condotto nelle carceri bosniache. E ora Ibrahim si trova a dare delle disposizioni da seguire senza alcun tentennamento: a Jabir, il più grande che ha un lavoro, spetta la responsabilità della casa; a Usama è affidato il compito di occuparsi delle pecore; Useir deve continuare a studiare e imparare a memoria il Corano.

ED È PROPRIO il più piccolo dei tre che si pone delle domande sulla natura della missione in Siria di suo padre, sul suo non essere del tutto innocente, anche se in quei soli dieci giorni probabilmente non ha ucciso nessuno. Per Jabir e Usama, invece, il tribunale che cerca qualcuno da condannare e l’Europa che chiede un conto da saldare, sono dei solidi ripari per giustificare il dramma famigliare.

Miglior film a Cineasti del Presente allo scorso Festival di Locarno, Brotherhood di Francesco Montagner racconta in prima battuta due tipi di fratellanza, quella militaresca del padre che a casa (e dal carcere) dirige i tre figli come fosse un capitano con i suoi tre soldati. E poi quella dei tre fratelli che riescono a condividere brevi momenti di spensieratezza, tra storie di mostri, morra cinese e prese in giro sulle ragazze, in un piccolo mondo che sembra negare ogni forma di presenza femminile.
Questa doppia fratellanza appare sin dalle prime immagini. Da un lato, gli sfondi rurali nei quali agiscono i tre giovani che badando alle pecore e si intrattengono davanti al fuoco. Dall’altro, i muri di una casa dentro la quale vige il rigido e claustrofobico ordine paterno. Nella dimora dei pastori, le parole di un telegiornale, che svelano alcuni dettagli del processo subito dal capofamiglia, si alternano alla preghiera. Pare non esservi altro.

«Pensi che farai sempre il pastore?», chiede Jabir al fratello. «Perché non dovrei? – risponde Usama – Sono riuscito a farlo finora, perché non dovrei continuare? Il destino di tutti è già scritto. Il mio è quello di allevare pecore. È quello che volevo ed è quello che farò». È in questo dialogo che si rivela l’elemento più forte e universale di Brotherhood, un documentario ben diretto, con qualche eccesso di scrittura, che pone l’accento sul destino e sul fallimento che questo termine, a cui continuiamo a dare un valore sproporzionato, porta inevitabilmente con sé.

IN REALTÀ, nessuno dei tre fratelli riesce a aderire ai piani del padre. E così ne esce un romanzo di formazione senza formazione, nel quale il peso dei compiti da svolgere è insostenibile, che si tratti di trovarsi un lavoro, di custodire le pecore o di continuare a studiare. Tutto resta com’è, in attesa che la fuga lasci le sembianze di un’illusione per trasformarsi in una pratica dell’esistenza.