Una sorta di ribellione al già detto, al già visto, al già letto, sembra guidare la scrittura di Jennifer Egan, trasmettendo per contagio al lettore – a dispetto dei pericoli che comporta ogni tentazione del nuovo – l’entusiasmo delle sperimentazioni che affida via via alle sue pagine. Per ciascun capitolo del romanzo che più ha contribuito alla sua notorietà, Il tempo è un bastardo (minimum fax, 2011) scelse una voce diversa e un nuovo orientamento del punto di vista, arrivando a affidare i pensieri di una dodicenne alla riproduzione di slides proiettate in power point. Poi, in Scatola nera,benché la poca familiarità con i social network la obbligasse a scrivere preventivamente ogni capitolo a mano su un quaderno, volle organizzare una spy-story come una sequenza di tweet.

Gli imbastardimenti del linguaggio hanno sempre interessato Jennifer Egan, così come le inaspettate luminosità che il parlato conquista rinnovando la sua carica semantica nei diversi contesti; ma tra i meriti della scrittrice americana c’è anche quello di evocare atmosfere non meno significative dei caratteri che le abitano, sempre a proprio agio in quella autorevole naturalezza che la sua voce sa imprimere a ogni situazione. Poi, un giorno del 2004, alla Public Library di New York, cominciò quasi per caso le ricerche che l’hanno portata, quattordici anni dopo, alla pubblicazione del suo ultimo romanzo, Manhattan Beach (traduzione di Giovanna Granato, pp. 510, euro  22,00), la cui prima stesura riempì all’incirca 1400 pagine scritte a mano e da lei stessa giudicate, allora, drammaticamente insoddisfacenti.

Un patto fatale
Durante tutto il tempo in cui Jennifer Egan ha esplorato la zona portuale di New York, letto la corrispondenza di alcuni impiegati al cantiere navale di Brooklyn, raccolto e ordinato le storie orali che ne testimoniavano i ricordi, indagato il sistema bancario newyorkese durante la seconda guerra, indossato tute da palombaro e ascoltato i resoconti delle prima donna ad avere affettuato immersioni per conto dell’esercito, alcuni fatti importanti hanno influenzato la sua concezione del romanzo: dall’attacco alle Twin Towers, che rievocando (per smentirla) la pretesa invincibilità degli Stati Uniti l’ha indotta a retrodatare il romanzo al tempo della seconda guerra mondiale, fino alla morte di Steve Jobs con cui aveva avuto una relazione sentimentale, e al suicidio del fratellastro Graham, di cui le arrivò notizia mentre correggeva le ultime bozze del romanzo.

Questa volta, la pulsione sperimentale di Jennifer Egan non si è riversata sulla struttura, del tutto tradizionale, bensì sulla ambientazione, effettivamente inedita e suggestiva: il porto di New York con i suoi moli avvolti nel silenzio subentrato all’arresto dei traffici mercantili durante la guerra e, di contro, la febbrile esaltazione del varo di nuove navi da combattimento. Ma nel romanzo, anche altri luoghi, più circoscritti, tornano a ospitare svolte della trama che sembra non possano avvenire se non lì, dove effettivamente si consumano.
Dei due principali personaggi maschili, Dexter Styles è il più riuscito, grazie alla sua contradittorietà niente affatto scontata: figlio di un ristoratore italiano, ha cambiato nome per costruire la sua illecita carriera, che specula «sulla forza del desideri umani». Gestisce principalmente locali notturni funzionali a ripulire gli enormi guadagni portati a casa dal suo boss con lo spaccio di liquori. Lo incontriamo sulla scena inaugurale del romanzo, quando il deuteragonista Eddie Kerrigan lo va a trovare nella sua lussuosa casa affacciata su Manhattan Beach. Solo molto tardi, in uno dei flash back della trama, sapremo quale ragione ha portato Eddie, fino ad allora al soldo del sindacato dei portuali, a incontrare Dexter: la guerra ha fermato il traffico mercantile e Eddie Kerrigan ha bisogno di un lavoro. A forza di distribuire mazzette a consiglieri, senatori, capi della polizia, boss dei pontili rivali, si è ritrovato a frequentare ippodromi, sale da ballo, teatri, associazioni cattoliche, dovunque elegante e a suo agio. Per conto dei portuali di Brooklyn, Eddie riceve e consegna, dunque conosce la via dei profitti, ed è persino capace di sottrarre a quegli scambi un po’ del loro senso di disonestà.

Per Dexter Styles ha un suggerimento, e il caso vuole che incontri l’insoddisfatta aspirazione di quell’uomo, più potente di quanto non vorrebbe: «lei potrebbe gestire il suo traffico meglio e allo stesso tempo renderlo pulito, più onesto… le serve un difensore civico», gli dice. Eddie otterrà quel lavoro e diventerà occhi e orecchie dell’anomalo gangster. A Manhattan Beach, dove il patto si stringe, si è fatto accompagnare da Anna, la figlia maggiore nonché protagonista del romanzo, la cui presenza in quel frangente è tanto apparentemente inopportuna quanto funzionale a creare un precedente remoto per la relazione che, di lì a dieci anni, stringerà con Dexter Styles.

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E ora viene il dopo
La prospettiva circoscritta dell’incipit non rivela quasi nulla ma definisce immediatamente l’atmosfera del romanzo, e permette al lettore di apprezzare quella speciale empatia che Jennifer Egan sa instaurare con i suoi personaggi, contribuendo a staccarli dalla pagina e a renderli vivi. Poi il fuoco si stringe ancora negli interni di casa Kerrigan, un tempo benestanti e ora resi dismessi dalla Depressione, dove vivono la scapestrata sorella di Eddie, la amata moglie e la figlia più piccola, Lydia, gravemente handicappata, che non parla né agisce, dunque funziona come un personaggio passivo, catalizzatore delle gesta altrui, dei loro affetti e della impossibilità del padre di tollerarne la disgrazia. Non è una malata mentale dotata di personalità propria, come il faulkneriano Benjy Compson di L’urlo e il fuore, è invece un essere del tutto dipendente dalle mani amorevoli di chi la accudisce; ma la sua presenza permette alla scrittrice americana di allestire una delle scene più riuscite del romanzo, proprio in virtù della sua paradossalità: Anna ha ormai diciannove anni, rincontra Dexter Styles in uno dei locali notturni di sua proprietà, ma prima ancora di accorgersi che l’uomo la attrae riuscirà a strappargli la promessa di aiutarla a portare la sorella malata a vedere il mare. E così, una domenica mattina, il gangster va a prendere le due ragazze, si carica sulle braccia quella che viene definita «la storpia» e insieme si avviano verso Manhattan Beach, davanti alla casa di Dexter in riva al mare, dove dieci anni prima aveva avuto luogo l’incontro con il padre di Anna.

Styles non ricorda, né stabilisce alcun nesso tra la bambina di allora e la donna che ha davanti; lei invece sa e immagina che egli conosca la sorte del padre, andato via di casa ormai cinque anni prima, e scivolato via dai discorsi della famiglia senza lasciare tracce apparenti di sé. Quel che rende la scena memorabile, non è tanto la incongruenza fra il gangster e la situazione nella quale si è avventatamente cacciato, quanto le immagini sepolte che si risvegliano nella sua mente: al contatto con i poveri interni di casa Kerrigan, il ricordo della fragile madre morta si ricongiunge al fardello malato della ragazza che ora Styles porta tra le braccia, e a distanza di tempo ricapitolerà quella gita al mare come una esperienza straniante, ma per nulla sgradevole.

Per quanto breve, la scena è tra quelle che alla scrittrice americana riescono meglio, perché mobilita quella sua complice internità con i personaggi che passa per il tramite dei suoi affetti; non altrettanto bene le riescono, invece, le lungamente studiate digressioni cui affida la singolarità del romanzo, ovvero tutto quanto ruota intorno alla professione di palombara che Anna riesce, tra non pochi e prevedibili ostacoli, a conquistarsi. Siamo ormai fra il 1942 e il 1943, i nazisti hanno circondato Stalingrado, la mobilitazione cui chiama la guerra manda in fibrillazione anche il porto di New York, e Anna decide di sottoporsi alla dura corvée implicata nella professione del palombaro, che affascina la sua natura ribelle e impegna la sua vocazione al rigore. Alla prima, seria immersione, richiesta di limitarsi a valutare quale ostacolo abbia bloccato le eliche di una nave e risalire immediatamente in superficie per riferirne, Anna si intestardisce e ripara lei stessa il danno: «toccare lo scafo era stato come toccare la guerra».

Qualche punto debole
Rese possibili da una documentazione capillare, queste e altre pagine che descrivono lo sforzo nel contrastare le correnti sottomarine, la sensazione del contatto con il morbido fondale del porto, il gattonare nella semioscurità, i disagi della respirazione nello scafandro, sono esemplari al tempo stesso della abilità di Jennifer Egan e delle molte forzature di questo romanzo, che scommette sulla tecnica di situazioni lungamente studiate ma scarsamente metabolizzate. Così come rasenta il cliché quando descrive i rapporti di Dexter con gli altri della sua banda, o il duetto che Anna inscena con la sua amica Nell – l’una tutta famiglia e lavoro, l’altra tutta scialo e divertimento – e sfiora la credibilità quando impegna Dexter in una performance sottomarina che sarà un piacere, comunque, arrivare a scoprire.
Anche il personaggio di Eddie non viene abbandonato, nel romanzo, all’oblio che la famiglia vorrebbe stendere sul suo nome. Lo ritroveremo, pure lui per mare, dopo capovolgimenti della sua sorte – alcuni appassionanti, altri al limite della verosimiglianza – che contribuiscono a un puzzle romanzesco dove tutti gli elementi tornano, e soprattutto si ripropongono i luoghi: i cantieri navali dove Anna lavora, la rimessa per le imbarcazioni dove si svolgono i traffici illeciti di Dexter, il ricciolo di mare ghiacciato di Croocked Creek, dove il gangster che aspira alla legalità mette per due volte il proprio destino nelle mani del potente suocero.

E, naturalmente, torna più volte la spiaggia di Manhattan, emblematico luogo di incroci fatali, che secondo quanto riporta un lungo profilo dedicato alla scrittrice dal «New Yorker» nell’ottobre del 2017, Jennifer Egan ha perlustrato in lungo e in largo, quando ancora giacevano sul litorale i resti devastati dell’uragano Sandy, le cui conseguenze sarebbero state immortalate nei bellissimi racconti di Richard Ford raccolti in Tutto potrebbe andare molto peggio (Feltrinelli, 2015).