È una delle stelle del campionato di basket universitario statunitense, che si appresta a celebrare la corsa al titolo nazionale con il torneo a eliminazione diretta ribattezzato nel gergo sportivo “March Madness”, la follia di marzo. Ma Bronson Koenig, probabilissima futura stella dei professionisti della NBA, non si è guadagnato notorietà e considerazione solo per la precisione al tiro da tre punti o l’abilità nello spaccare le difese avversarie con le sue entrare a canestro. La ventiduenne guardia dei Wisconsin Badgers, al suo ultimo anno al college, è famoso anche per aver fin dal primo momento sostenuto la lotta dei Sioux Hunkpapa contro il devastante Dakota Access Pipeline. Un oleodotto sotterraneo che dovrebbe passare sotto il letto del fiume Missouri e finirebbe per distruggere siti di importanza storica e religiosa per i Sioux, nonché compromettere le loro riserve idriche. La pipeline, lunga 1.886 chilometri e in parte già realizzata, aveva subito uno stop durante le settimane di chiusura della presidenza Obama, quando il genio militare non aveva concesso il permesso di effettuare i lavori nella riserva indiana. Decisione subito capovolta nelle prime settimane con Donald Trump nuovo inquilino della Casa Bianca.

In questo ultimo frangente la protesta degli Hunkpapa ha conosciuto vari momenti intensi e molto partecipati, ma in realtà era iniziata già lo scorso aprile. A settembre, prima di ricominciare l’anno accademico e il campionato di basket, Koenig è salito in macchina insieme al fratello Miles e ha guidato per 14 ore fino all’accampamento di Standing Rock. Lì ha trascorso alcuni giorni molto intensi, alla riscoperta delle sue origini (la madre del cestista è nativa americana) e delle ragioni della comunità, tutta schierata contro la Dakota Pipeline.

Koenig ha narrato la sua esperienza in un articolo apparso su The Player Tribune. Mentre riassaporava i sapori e gli odori della tradizione Sioux, c’erano sempre un elicottero della Dakota Access Company e un cordone di polizia a “vigilare” su di lui. Nel suo racconto non poteva mancare una palla a spicchi. A un certo punto si è trovato davanti un campo da basket un po’ improvvisato, con una cinquantina di bimbetti, quasi tutti con tanto di maglietta del loro idolo Lebron James, che lo hanno accolto calorosamente. Uno dei cestisti in erba gli ha chiesto se da ragazzino avesse un nativo come modello da seguire. “Non ne avevo, ma mi sono reso conto che loro invece avevano me, e questo mi ha molto colpito”, ha scritto Bronson. Attualmente ci sono solo 40 giocatori nativi americani sugli oltre 5mila che disputano il campionato di Division One della NCAA, il basket universitario.

“Al liceo e al college si studia poco o nulla della storia della mia gente. Anche io fino a una certa età sapevo ben poco di episodi come Wounded Knee (l’eccidio di oltre 300 Lakota Sioux da parte dell’esercito statunitense nel 1890, ndr), poi mi sono impegnato in prima persona per colmare tutte le lacune che avevo e iniziare ad avere un ruolo attivo nella mia comunità”, ha aggiunto Koenig nel suo articolo.

“Il basket è lo sport che amo, ma il futuro del mio popolo è molto più importante per me”. Più chiaro di così…